martedì 29 aprile 2008

Time is on my side

E' in uscita l'autobiografia del nume tutelare di questo povero blogghe, monsieur Keith Richards.
Sostiene Mick Jagger: "Credevo che uno dovesse ricordarsi la propria vita per poterne scrivere".


Ehm, in effetti, il santo patrono che mi sono scelto... Come dire?
Non è mai stato precisamente un salutista, ecco. Specialmente nei suoi anni verdi.
E insomma, di certe giovanili intemperanze (se così vogliamo chiamarle...) la sua memoria potrebbe forse avere un pochino risentito...
Si fa per dire, eh!

Citazioni



Si è parlato molto, negli ultimi giorni, di Matteo Messina Denaro.
A Palermo e a Castelvetrano, paese natale del boss mafioso, sono comparsi dei murales che ritraevano il superlatitante alla maniera di Andy Warhol.
I commenti si sono sprecati. Si va da Vittorio Sgarbi, un critico d'arte (parrebbe...), che sostiene che appunto di arte trattasi, e “l'arte fa ciò che le pare”, al questore Giuseppe Caruso che ipotizza che “potrebbe essere un incitamento alla cattura” passando per il senatore del PdL Carlo Vizzini, secondo il quale si tratta di “un episodio inquietante”.
Sul mio quotidiano di riferimento (sempre lo stesso...) Salvo Palazzolo scrive che le ultime tracce certe del padrino più ricercato dall'antimafia risalgono al 2006. In quell'anno un confidente del SISDE, nome in codice Svetonio, recuperò la corrispondenza del boss con il capomafia di Trapani.
E che cosa ti viene fuori? Sentite un po': “Sono diventato – scrive Matteo Messina Denaro – il Malaussène di tutto e tutti”.
Ostia. Un mafioso che legge Daniel Pennac. E chi se lo sarebbe mai aspettato?
Già mi stupii un bel po' quando venne catturato Pietro Aglieri, u' signurinu, l'organizzatore della strage di Via D'Amelio. Il covo del boss ospitava una biblioteca con oltre duecento volumi tra testi filosofici e religiosi, dalle Confessioni di Sant'Agostino all'introduzione al pensiero di Kierkegaard, dagli atti del Concilio Vaticano II ai pensieri di San Paolo. Ricordo che nel 2001 Aglieri si iscrisse, previa autorizzazione della Procura della Repubblica di Palermo, alla facoltà di Lettere (indirizzo teologico, ça va sans dire) dell'Università La Sapienza di Roma. Il primo esame lo diede nel 2002. Ignoro se nel frattempo sia riuscito a laurearsi.
E adesso ti arriva questo qui che per dire “io sono il capro espiatorio di tutto e tutti” se ne esce con Benjamin Malaussène che ne Il paradiso degli orchi di professione faceva il capro espiatorio in un grande magazzino. Conoscete?

“Quando arriva un cliente con una lamentela, vengo chiamato nell'ufficio Reclami nel quale ricevo una strapazzata assolutamente terrificante. Il mio lavoro consiste nel subire l'uragano di umiliazioni con un'aria così contrita, così miserabile, così profondamente disperata, che di solito il cliente ritira il reclamo per non avere il mio suicidio sulla coscienza”.

In una delle sue lettere, Messina Denaro scrive: “il non aver studiato è stato uno degli errori più grandi della mia vita, la mia rabbia maggiore è che ero un bravo studente... Se potessi tornare indietro...”.
Beh, forse non ha studiato, 'sta canaglia, ma decisamente sa leggere (do you know what I mean?).

A me è venuta in mente la figura del terribile brigante Gian dei Brughi ne Il barone rampante di Italo Calvino che, dopo esser stato educato alla lettura dal protagonista del romanzo, l'indimenticabile Cosimo Piovasco di Rondò, diventa docile e mansueto come un bue. E perciò del tutto inabile al crimine e al delitto.
“(...) a Gian dei Brughi era presa una tal furia di letture, che divorava romanzi su romanzi e, stando tutto il giorno nascosto a leggere, in una giornata mandava giù certi tomi che mio fratello ci aveva messo una settimana, e allora non c'era verso, ne voleva un altro”.
Amava Richardson, il brigante, e “sdraiato sul suo giaciglio, gli ispidi capelli rossi pieni di foglie secche sulla fronte corrugata, gli occhi verdi che gli si arrossavano nello sforzo della vista, leggeva leggeva muovendo la mandibola in un compitare furioso, tenendo alto un dito umido di saliva per esser pronto a voltare la pagina. Alla lettura di Richardson, una disposizione già da tempo latente nel suo animo lo andava come struggendo: un desiderio di giornate abitudinarie e casalinghe, di parentele, di sentimenti familiari, di virtù, d'avversione per i malvagi e i viziosi. Tutto quel che lo circondava non lo interessava più, o lo riempiva di disgusto”.
Mi auguro (gli auguro...) che a Matteo Messina Denaro capiti qualcosa di simile: forse pure nel suo animo c'è una disposizione, latente da chissà quando (“il non aver studiato è stato uno degli errori più grandi della mia vita”), che lo spinge, nonostante tutto, a cercare la bellezza, la bontà, la rettitudine, il senso morale.
Forse...
Ma temo che non accadrà nulla di quello che mi auguro.
Mi sa proprio di no.

Perciò l'Antimafia si sbrighi a catturarlo, questo assassino che legge Pennac.

domenica 27 aprile 2008

Parole celebri dalle mie parti (n.9)


"Non v'è dubbio che lo spirito italiano del nostro ultimo tempo si sia temprato al fuoco del melodramma. Il melodramma è l'esponente di questa nostra ormai invecchiata ma ancora resistente civiltà.
Accettata tale premessa resta solo da domandarci se l'italiano melodrammatico per natura abbia creato il melodramma o il melodramma abbia creato lui melodrammatico di conseguenza."

(Aldo Palazzeschi)

sabato 26 aprile 2008

Saggezza popolare

In Sardegna (almeno nell'oristanese: è la parte dell'isola che conosco meglio. C'è nato mio padre, ci vivono i miei zii) quando uno le spara troppo grosse, quando le spacconate di certi agitati da bar raggiungono il livello di guardia, quando lo smargiasso di turno, tra una minaccia e una rodomontata, si sta gonfiando un po' troppo e c'è il serio rischio che faccia bùm, capita talvolta che qualcuno, uno qualsiasi, magari solo uno che sta passando di là per caso, proprio in quel momento, se ne esca con un espressione che ho sempre trovato magnifica: "A troddius!".
Traduzione dal campidanese: "A scorregge!".
Ad esempio: "Voi non sapete che cosa potrei fare, se solo mi ci mettessi! E non ridete, se no vi faccio smettere io!", ed ecco che s'ode un magico, annichilente: "A troddius!".
Oppure, che so: "Per troppo tempo ho sopportato: per troppo tempo! Adesso basta! Piangere, li faccio!", e sempre lui, quello di prima: "Eia, eia... A troddius!" ("Si, si... A scorregge!").




Ieri, a Torino, questa faccia da culose ne è uscito così: "Oggi i veri partigiani siamo noi... Ah, se solo avessimo più cuore e più coglioni! Siamo noi la nuova Resistenza!".
A troddius, imbecille.
A troddius!

giovedì 24 aprile 2008

No, dico, e questa?


Un giorno o l'altro vi dirò cosa penso degli X Files della sinistra italiana...
(per la serie: chi è che l'ha ammazzato, Aldo Moro? Gli americani, no?)

Eredità pesanti


Vignetta di Altan su la Repubblica di oggi.
Dialogo tra due personaggi: un lui anzianotto, una lei pure attempata (almeno così mi sembra...) in basco e maglietta rossi.
Comunisti? Ex o post?
E insomma.

Lui: "Festeggiamo la Resistenza."
Lei: "Siamo all'altezza?"


Chissà come gli vengono...

mercoledì 23 aprile 2008

La versione di Perry

Oggi su la Repubblica, intervista allo storico britannico Perry Anderson, professore alla UCLA ed ex direttore della New Left Review.
Sta per uscire anche da noi, per i tipi di Baldini Castoldi Dalai, il suo ultimo libro, Spectrum, in cui il professore prova ad analizzare - con quello che egli stesso definisce realismo senza compromessi“la portata di una sconfitta storica, quella della sinistra nel Ventesimo secolo” cercando di “guardare al sistema che ha vinto in modo lucido”.
Quello che mi ha colpito, nell'intervista, è questo succinto (ma fulminante) compendio della storia italiana della seconda metà del XX secolo.
Sentite un po'.

“Come storico mi è impossibile non guardare senza una certa nostalgia alla prima repubblica, nata dalla Resistenza: un sistema politico ricco e sofisticato, con grandi partiti sia della destra che della sinistra, alti livelli di partecipazione, anni di inventiva e successo economico, una cultura straordinariamente dinamica; basta pensare al cinema italiano di quel periodo.

La svolta negativa avviene a metà degli anni Settanta con il compromesso storico e le sue conseguenze: il terrorismo, il conformismo, la strana carriera di Bettino Craxi in grado di bloccare la vita politica con un piccolo partito, e poi a seguire la corruzione e la criminalità.
Oggi, dopo 16 anni di Seconda Repubblica, possiamo veramente dire che le cose siano – politicamente, economicamente, giuridicamente, intellettualmente - migliori?
Adesso c'è l'Italia che vuole diventare un “paese normale”, slogan di D'Alema e altri, cioè simile agli Stati Uniti o alla Gran Bretagna. Ma chi ha inventato il termine normalizzazione? Breznev con la Cecoslovacchia. Quella ovviamente era una normalità alla sovietica, ma perché l'Italia dovrebbe diventare un simulacro mediocre degli Stati Uniti?
Invece di una vera ambizione si mostra un complesso di inferiorità. Una sindrome che si è ostentata anche nella campagna elettorale con gli shows che Berlusconi ha adottato da Reagan e gli slogan che Veltroni ha ereditato da Obama, con una mancanza di immaginazione desolante. Naturalmente questa Repubblica, dove l'identità collettiva si è ridotta più o meno al campo di calcio, non è tutta l'Italia. Speriamo che la sua vita sia breve”.

Ora, non posso dire di condividere tutto quello che Anderson ha affermato, però...
Che gli anni Settanta del Novecento, dopo il loro momento iniziale (quella che Paul Ginsborg ha chiamato l'epoca dell'azione collettiva), siano stati un periodo davvero orrendo a me pare un'idea assai condivisibile. Purtroppo non siamo in molti, mi sembra, a pensarlo. Specialmente a sinistra.
Ma considerate: estremismo politico come fenomeno di massa, politicizzazione grottesca di amplissime zone della società (ad esempio l'Università), violenza di piazza, terrorismo, rivendicazionismo sindacale oltranzista e ci sarebbe un sacco di altro sconcio da ricordare ma mi fermo volentieri.
Che poi gli anni del boom economico sarebbero stati invece una sorta di age d'or, per il nostro povero Paese, mi pare lo avesse detto anche Walter V. in campagna elettorale. E se lo dice Walter nostro, beh, forse possiamo pure perdonargliela, quella desolante mancanza d'immaginazione che l'impietoso professor Anderson gli imputa.

E, ehm, delle parole che il nostro spende su Craxi e sulla sua "strana carriera" che ne pensate? E di quelle sull'identità collettiva della Repubblica "ridotta più o meno al campo di calcio"?
Sia come sia, secondo me vale la pena, ogni tanto, di chiedere ad uno straniero come ci vede, come gli sembriamo, noi italiche genti.
Si, vale la pena. Nonostante tutto. Nonostante la pena...

martedì 22 aprile 2008

Parole celebri dalle mie parti (n.8)


"Un'idea morta produce più fanatismo di un'idea viva, perché gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte."

(Leonardo Sciascia)

lunedì 21 aprile 2008

Vedo e prevedo


Il 25 aprile si avvicina.
Here we go again.
Silvio Berlusconi non si farà vedere a nessuna cerimonia pubblica: non l'ha mai fatto, né da Presidente del Consiglio dei Ministri né da conducator di Forza Italia, dunque perché proprio quest'anno dovrebbe cambiare programma?
Non gliene frega niente del 25 aprile, al Cavaliere: si sa.
Quindi se ne resterà beato come un pupo a Villa Certosa (un bel weekend lungo), dove magari si farà fotografare con qualche cara amica vezzosamente accomodata sulle sue ginocchia. Poi Oggi pubblicherà i piccanti scatti e magari Veronica Lario si incazzerà di brutto e perciò prenderà nuovamente carta e penna e scriverà a la Repubblica una lettera di fuoco citando i romanzi di Catherine Dunne. Tutto già visto.
Ma chissà? Forse l'arcitaliano potrebbe stupirci tutti quanti presentandosi in pubblico, da qualche parte, ad interpretare la parte del Presidente partigiano. Pensateci: un Pertini per gli anni Duemila, sfolgorante in soglio. Perché no? Essendo Silvio Berlusconi capace di tutto, come potrebbe non essere capace pure di questo?
Chi non ci stupirà proprio, invece, è la (noiosissima: du' palle...) sinistra-sinistra: la vera sinistra, intendo, quella tosta, quella dei Sublimi Maestri Perfetti.
Dopo la catastrofe che è uscita dalle urne elettorali lunedì scorso, quale miglior occasione per tirar fuori il capino dal guscio (vabbé, dal guscio forse è un po' troppo. Dal guscino, via!) e dire al mondo (vabbè, al mondo... Ci capiamo, vero?) che nonostante tutto siamo ancora qui a combattere le ingiustizie, il capitale, l'imperialismo americano, Veltroni che parla male della lotta di classe, Cofferati e Zanonato che sulla sicurezza scimmiottano le politiche della Destra, la TAV, i rigassificatori, l'allargamento della base di Vicenza, la Confindustria, Goldfinger, Gei Ar Ewing, l'Uomo Del Monte, il generale Custer, Agnelli e Pirelli, ladri gemelli: quale miglior occasione, compagni? Eh?
Su Liberazione trovate già scritto tutto: “Torniamo in piazza, ricominciamo dal 25 aprile”.
Il solito copione, quindi: una festa che dovrebbe essere festa di tutti gli italiani (non solo quindi degli italiani di sinistra, ma pure di quelli di destra: anche se non lo sanno. Anzi: proprio perché non lo sanno) in cui garriranno al vento, invece, le solite, gloriose bandiere di partito, forse sconfitte ma indomite, come direbbe Bertinotti Fausto, ex Presidente della Camera dei Deputati, ex candidato premier e ora semplice militante de La Sinistra l'Arcobaleno.
Perché è così che andrà, poche storie. E andrà così perché è già andata così. Almeno negli ultimi quattordici anni.
E i poveri in spirito, i sempliciotti come me, si chiedono: ma se il 25 aprile è una festa nazionale, non dovrebbe garrire al vento solo la bandiera dai tre colori che è sempre stata la più bella?
Dice: ma noi alla festa nazionale vogliamo venirci con le nostre bandiere!
E io chiedo: perché? Pòrtacele alla TUA manifestazione di partito, le TUE bandiere. A questa festa di tutti, invece, prova a venirci solo da italiano, e non da uomo di parte. No?
E comunque, cari compagni, se (vedi mai...) quelli del PdL (italiani come noi, giusto?) decidessero di portare le LORO bandiere di partito alle manifestazioni per il 25 aprile, come sarebbero accolti?
Ve lo dico io: più o meno come venne accolto nella grande manifestazione del 2006 a Milano l'allora ministro dell'istruzione e candidato sindaco della città, signora Letizia Moratti, che spingeva su una sedia a rotelle il papà, ex partigiano ed ex deportato a Dachau.
Ricordate? Fischi ed insulti. E a seguire, ciliegina sulla merda, il memorabile commento dell'immarcescibile Armando Cossutta, che osservò, lo squisito, come i fischi “fanno parte della democrazia, gli insulti invece no”.
Oppure sarebbero accolti come fu accolta, nella stessa manifestazione, la Brigata Ebraica: al grido di "Stato di Israele, stato terrorista" e a quello di "Sionisti, sionisti!".
Sbaglio?
Può essere. Dalle mie parti si sbaglia molto, in effetti.
D'altra parte, cazzo volete? Se fossi perfetto, il 25 aprile starei anch'io a sventolare insieme a voi, cari compagni, la mia bella bandierina di partito.
Per far sapere al mondo (ehm...) che noi (noi, noi, noi, noi, noi, noi, noi, noi... Sempre noi: e che due coglioni!) ci siamo ancora.
Sconfitti, ma indomiti.

P.S.
E Silvio Berlusconi, quello stronzo, se ne resti pure a Villa Certosa con le sue amichette, che alle NOSTRE manifestazioni non è ospite gradito.

domenica 20 aprile 2008

Mister tic maramaldeggia un po' (pt. 5)

"Ero abituato a uno stipendio di duemila euro al mese. I soldi in più in questi due anni di ministro li ho destinati al mutuo: cinquanta metri quadrati a Pinerolo, tasso fisso però. Ho mantenuto il medesimo stile di vita. Ho solo messo la cravatta, che prima non portavo. Ho mangiato tutti i giorni in ufficio. Tutti i giorni della verdura in un piatto di plastica. Mi ero ripromesso di non abituarmi a nessun comfort.
Io torno in strada con gli abiti in cui sono entrato nel Palazzo."

Paolo Ferrero - di Rifondazione Comunista (lui ci tiene, a ricordarlo), ex Ministro della Solidarietà Sociale del governo Prodi - dixit.
Peccato che tutte queste belle cose (davvero commoventi, no?) se le sia dette da solo.
Per raccontarlo al meglio, uno così, ci vorrebbe come minimo Edmondo De Amicis.

sabato 19 aprile 2008

Ciao, Danny



Danny Federici, tastierista della E Street Band, e' morto il 17 aprile a New York. Tre anni fa era stato colpito da un melanoma. L'annuncio e' stato dato da Bruce Springsteen sul suo sito web. "Danny e io abbiamo lavorato insieme per 40 anni. Era il piu' eclettico e meraviglioso tastierista del mondo e un musicista nato. Lo amavo cosi' tanto...Siamo cresciuti insieme".
Federici suonava con Bruce da sempre.


When they built you, brother, they broke the mold.

Mister tic maramaldeggia un po' (pt. 4)


"L’8,7% ottenuto dalla sinistra unita in Germania sarebbe per voi una vittoria o una sconfitta?", chiesero qualche settimana fa a Bertinotti Fausto.
Lo sventurato rispose: “Siamo uomini di grande ambizione, mai porre limiti alla provvidenza rossa”.
Beh, non dev'essere proprio granché, 'sta provvidenza rossa.
Non mi pare il caso di farci troppo conto, per il futuro.

E, a proposito: diceva Bismarck che "esiste una provvidenza speciale per gli ubriachi, per i matti e per gli Stati Uniti d'America”.
Sarà mica per questo, cari compagni, che gli americani vincono (quasi...) sempre?

(se quanto sopra vi suona un po' malevolo, beh... Avete un buon orecchio)

mercoledì 16 aprile 2008

L'aveva detto, lui...

Un genio incompreso.

Una prece.

Mister tic maramaldeggia un po' (pt. 3)

"L'Italia sembra il Billionaire, andrò a Cipro dove c'è un presidente comunista...".

Il Presidente di Cipro si tocchi gli zebedei...

martedì 15 aprile 2008

Mister tic maramaldeggia un po' (pt. 2)

Com'era, com'era? Chi è che doveva piangere?

Mister tic maramaldeggia un po' (pt. 1)

Ma come farà mai, un operaio, a votare Lega?



Nella foto: l'ex Presidente della Camera dei Deputati, Bertinotti Fausto (anzi, Bevtinotti Fausto), che si scassa un bel prosecchino ciacolando amabilmente con Patroni Griffi (anzi, con Patvoni Gviffi). Alle sue spalle, le belle tettone di Valeria Marini (anzi, le belle tettone di Valevia Mavini). Quello che se la ride, a destra nella foto, assomiglia in maniera impressionante a un tizio che conosco, uno che fa l'operaio al cantiere navale di Monfalcone. Ma non è lui.

lunedì 14 aprile 2008

Parole celebri dalle mie parti (n.7)


"Cosa pretendi da un Paese che ha la forma di una scarpa?"

(Freakantoni)

L'importante è partecipare

Una prece.

sabato 12 aprile 2008

Di taumaturgia ed altre meraviglie


“Il 16 giugno 1944 ventisette francesi, ventisette patrioti, estratti dalle celle di Montluc, venivano condotti in un campo, in località detta Les-Roussilles, sulla via fra Trévoux e Saint-Didier-de-Formans, a venticinque chilometri circa a nord di Lione. C'era fra loro un uomo anziano, con i capelli grigi, dallo sguardo vivo e penetrante. Vicino a lui – scrive Georges Altman, in un articolo commovente apparso sui Cahiers Politiques – vicino a lui cammina un ragazzetto di sedici anni, che tremava: “Mi farà male...” Marc Bloch gli strinse affettuosamente un braccio e gli disse: “Ma no, figliolo, non farà male...” Cadde gridando per primo: “Viva la Francia!”.
Così fu annientato da pallottole tedesche uno dei più grandi spiriti di quell'Europa che non era, per lui, un'etichetta, ma una realtà vivente. Così morì un grande francese”.
Parole di Lucien Febvre. Ho voluto pubblicarle in talkischeap, e mi scusino, se possono, eventuali lettori di destra: sono parole che, mi rendo conto, grondano retorica resistenziale (in salsa francese, ma tant'è) come se piovesse. Proprio quell'orribile retorica resistenziale da cui i libri di storia in uso nella Scuola italiana dovrebbero essere purgati secondo l'opinione di Marcello Dell'Utri, raffinato intellettuale della Magna Graecia.
Marc Bloch è stato uno storico straordinario, uno dei più grandi del XX secolo: cofondatore, nel 1929, e condirettore, proprio assieme a Lucien Febvre, della rivista Annales, che rinnovò i metodi dell'indagine storica. La sua fama è legata soprattutto al suo primo vero libro, il cui titolo in francese suona così: Les rois thaumaturges. Etude sur le caractère surnaturel attribué à la puissance royale, particulièrement en France et en Angleterre (1924). In italiano, I re taumaturghi.
Va detto (ed è forse stato detto poco) che lo storico lionese è stato autore di altri libri importantissimi, come La società feudale, I caratteri originali della storia rurale francese, Apologia della storia o Mestiere di storico (pubblicato postumo, a cura di Febvre, nel 1949).
Jacques Le Goff considera I re taumaturghi l'opera che fonda l'antropologia storica: “Quello che Marc Bloch ha voluto fare è, insieme, la storia di un miracolo e della credenza in questo miracolo. D'altra parte, i due temi, in misura maggiore o minore sono mescolati tra loro. Marc Bloch ha dimostrato che il miracolo esiste a partire dal momento in cui si può (non c'è determinismo in Marc Bloch ma correlazioni razionali tra i fenomeni storici, senza identificazioni hegeliane tra il razionale e il reale) crederci e tramonta e poi sparisce da quando non ci si può più credere”.
Il miracolo di cui racconta Bloch è quello del re, il rito del tocco, “nato in Francia intorno all'anno 1000, in Inghilterra circa un secolo più tardi” e scomparso prima in Inghilterra, nel secondo decennio del Settecento (ovvero nel momento in cui si insediò sul trono britannico la dinastia tedesca degli Hannover), poi in Francia il 31 maggio 1825, quando Carlo X, dopo la sua consacrazione, fu l'ultimo re di Francia a toccare gli scrofolosi.
Con il termine di écrouelles, o più spesso con quello di scrofule (forma dotta del primo. Le due denominazioni, la popolare come la dotta, provengono dal latino scrofula) i medici designano l'adenite tubercolare, ossia le infiammazioni delle linfoghiandole causate dai bacilli della tubercolosi. Scriveva Bloch: “le linfoghiandole più facilmente intaccate dalla tubercolosi sono quelle del collo, ma quando il male si sviluppa inesorabilmente e si producono suppurazioni, può benissimo sembrare colpito il viso: di qui la confusione , che appare in molti testi, fra le scrofole e le varie affezioni del viso o anche degli occhi. Le adeniti tubercolari sono ancora oggi molto diffuse; quanto lo erano dunque un tempo, in condizioni igieniche nettamente inferiori alle nostre?”.
Le scrofole erano un male raramente mortale, ma molto fastidioso: perché potevano sfigurare chi ne era colpito. Inoltre, le suppurazioni dovevano essere particolarmente ripugnanti: le piaghe, infatti, di solito spargevano un odore fetido.
I malati, possiamo immaginarlo, desideravano ardentemente di poter guarire e spesso si affidavano ai rimedi che la vox populi indicava loro: “ecco lo sfondo del quadro che lo storico del miracolo regio deve tener sotto gli occhi”.
Bene.
I re di Francia e di Inghilterra per secoli pretesero di guarire gli scrofolosi mediante il semplice tocco delle loro mani: non a caso le scrofole nell'antica Francia erano correntemente chiamate il mal le roi, in Inghilterra King's Evil. E i malati ci credevano sul serio, al fatto di poter guarire, perchè, molto spesso, guarivano davvero: le malattie che passavano sotto il nome di scrofole, dice Le Goff, "talvolta guarivano spontaneamente, benché spesso in modo incompleto o temporaneo. La natura compiva il miracolo". E se la guarigione avveniva in un momento lontano dall'esecuzione del rito, "la gente del tempo credeva con facilità alla realtà di un miracolo a scoppio ritardato".
Ne I re taumaturghi Marc Bloch, storico razionalista, erede dei Lumi, “ebreo ateo che”, sono ancora parole di Le Goff, “più di chiunque altro ha creduto ai grandi valori laici nati dalla tradizione” si pose una serie di domande: come mai si è creduto tanto a lungo al miracolo dei re? Quando i sovrani cominciarono ad esercitare il loro potere taumaturgico? E (soprattutto) come furono indotti, i loro popoli, a riconoscere tale potere? Ovvero: quale fu la forza politica del miracolo del tocco (e intendo la politica dei re verso la Chiesa, ma anche la politica dei re inglesi e francesi all'interno dei loro rispettivi regni: la conquista del potere di guarire, infatti, andò di pari passo con l'affermazione del potere monarchico nei confronti dei grandi signori feudali, dei baroni, sia in Francia che oltre Manica)? E a tutte queste domande provò a dare risposta, ça va sans dire.
Il risultato? Una meraviglia, trust in tic: l'introduzione migliore che possiate immaginare al problema della regalità meravigliosa e sacra nell'Occidente medievale (poi potete proseguire con il Kantorowicz de I due corpi del re. Se della storia medievale vi importa qualcosa, beninteso).
Ora, voi vi starete certamente chiedendo: ma perché quel panzone del verro ci racconta tutto ciò? Solo per far sfoggio della sua notevole cultura?
Ma no, ma no: che andate a pensare?
Gli è che, sul quotidiano triestino Il Piccolo di venerdì 11 aprile, a pagina 2, è comparsa questa breve che qui riporto nella sua interezza:

ROMA Al termine del comizio nell'area dell'Arco di Costantino, Silvio Berlusconi si intrattiene con tantissimi fan, militanti a cui concede strette di mano, fotografie e autografi. Tra loro una famiglia con un neonato di sei mesi. Il papà lo porge al candidato premier del PdL per fargli una foto: “Che bel bambino, non piange e non si lamenta. E' chiaro – commenta scherzosamente Berlusconi – che da grande non voterà UdC”. Dopo aver ridato il bimbo alla famiglia, Berlusconi si allontana. Il papà, guardando il bambino, commenta raggiante: “Da grande sarai un uomo ricchissimo”.

Allora, io per onestà vi devo avvertire: in Venezia Giulia molti lettori de Il Piccolo (soprattutto quelli più anziani) lo chiamano il bugiardello, volendo con questo simpatico nomignolo significare che, ehm, il giornale, quanto ad autorevolezza, non è che sia proprio il massimo disponibile sul mercato.
E però...
E' troppo bella, 'sta storia. Illustra splendidamente in che modo una parte del nostro Paese viva la modernità: in ginocchio, ad aspettare il tocco del re taumaturgo.
Ma chi è l'incompetente che ha scelto lo slogan della campagna elettorale di Silvio Berlusconi, Rialzati Italia?
E' puro autolesionismo: c'è un pezzo di Italia che, in tutta evidenza, non ha proprio nessuna voglia di rialzarsi.
Ed è proprio la parte di Italia che da quattordici anni segue fedelmente le mirabolanti avventure dell'unto del Signore, il provvidenziale uomo dei miracoli.
Quanto al bimbo di cui sopra, gli auguro anch'io di diventare un uomo ricchissimo, quando sarà grande. E come no...
Ma gli auguro pure, e con tutto il cuore, che nel suo destino ci sia il parricidio.

venerdì 11 aprile 2008

Parole celebri dalle mie parti (n.6)


"La campagna elettorale è poesia. Il governo è prosa."

(Mario Cuomo)

martedì 8 aprile 2008

Ma pensa un po'...


Secondo un sondaggio di opinioni promosso dalla catena alberghiera Travelodge tra i propri clienti, i Coldplay risulterebbero la band che concilia di più il sonno.
Interessante.
A me, invece, stimolano la diuresi. Avviene regolarmente, in pratica dalla prima volta che ho sentito cantare Chris Martin (...and it was all yellow).
Robetta, comunque, in confronto a quello che è capitato alla mia amica Claudia: a lei la musica dei Coldplay ha causato una gravidanza isterica.

lunedì 7 aprile 2008

Un romanzo sentipensante



Questa mattina, prima di uscire di casa per andare a scuola, passando accanto alla mia libreria, m'è caduto l'occhio sui tre volumi di Memoria del fuoco di Eduardo Galeano.
E com'è, come non è, ho deciso di parlarvene in talkischeap.
Così, solo perché è uno dei romanzi che amo di più.
Io lo lessi solo tre estati fa, nell'edizione Rizzoli, ma uscì nel nostro Paese già nel 1989, per i tipi di Sansoni.
Eduardo Galeano, nato nel 1940 a Montevideo, è uno dei più noti (e notevoli) giornalisti dell'America Latina. Costretto all'esilio nel 1973, all'avvento della dittatura militare in Uruguay, ha vissuto in Argentina e, dal 1976, in Spagna. Nel 1985, caduta la dittatura, è ritornato in patria.
Un'avvertenza: io ho definito Memoria del fuoco un romanzo, e lo è: però però però.
Abbiamo a che fare (al di là di qualsivolglia definizione, dunque) con un testo singolarissimo, che si sviluppa attraverso brevi paragrafi, di massimo due pagine l'uno, introdotti da una data e dall'indicazione del luogo in cui i fatti narrati si sono svolti. In fondo ad ogni paragrafo, dei numeri di riferimento rimandano all'elenco delle fonti pubblicato alla fine di ciascun volume: alla base dell'opera c'è una bibliografia veramente sterminata.
Si tratta di un romanzo (torno a dirlo) storico che ha per protagonista proprio la Storia (si, la Storia: in persona...) del continente americano, dalle conquiste degli europei fino alla metà degli anni Ottanta del XX secolo (il terzo volume si ferma al 1986), ma non aspettatevi un romanzo storico nel senso ottocentesco del termine (non c'è, per intenderci, mescolanza tra finzione e realtà): Galeano, infatti, lavora solo ed esclusivamente all'elaborazione delle sue fonti (che sono le più disparate: memorie, cronache, opere storiografiche e letterarie), non si inventa niente e, lo ripeto, alla Storia non aggiunge nulla di nulla: semplicemente, nei documenti, sceglie quello che lo interessa: “Memoria del fuoco, disse al tempo della pubblicazione dell'opera, è una ricerca, potremmo dire così, dell'elettricità del reale. Io credo che la realtà abbia una tremenda energia di amore e di odio, un'energia che attraversa i secoli e i millenni e i mari e le pareti e tutte le frontiere. Il mio è un tentativo di recupero di questa energia attraverso la storia. Come si rivela questa energia, attraverso i grandi episodi della storia ufficiale? le grandi battaglie? le grandi processioni con i personaggi vestiti a festa? Naturalmente no. Non è nel marmo o nel bronzo che si rivela questa meraviglia della vita, ma nella carne e nelle ossa dei piccoli personaggi, che sono in realtà i grandi personaggi della vita viva. Memoria del fuoco racconta l'unica grande storia possibile, cioè la storia piccola, dei piccoli, perché l'universo sta tutto intero in un granello di riso”.
In realtà nell'opera non c'è solo la storia dei piccoli: perché non sono piccoli Cristoforo Colombo e Montezuma, Lincoln e JFK, Simòn Bolìvar e il Che Guevara, Al Capone ed Henry Ford, Chaplin e Marylin, Borges e Allende, Fidel Castro e Pinochet. Manco per idea, che lo sono: solo che questi nomi così celebri vengono magari raccontati, come dire? Ecco (e rubando una celebre immagine a Stefan Zweig), non necessariamente nei loro momenti fatali ma (e avviene molto spesso) puntando a quelli che meglio possono rivelare la loro statura umana, ovvero la loro grandezza o la loro miseria. Prescindendo quasi programmaticamente, insomma, dall'epos.
Poi accanto ai grandi, certo, i piccoli ci sono sempre. Per un Benjamin Franklin, c'è la sorella Jane. Per il comandante Guevara sulla Sierra Maestra, Chana la Vieja, una contadina che lo ricorda.
In Memoria del fuoco ci sono insomma i potenti e gli umili, gli aguzzini e le madri di Plaza de Mayo, i poeti e i guerriglieri, i calciatori e i navigatori, il bolero e il samba, i sognatori e i pistoleros, Custer e Geronimo, il jazz e Pancho Villa, gli Incas e gli imperatori europei, Massimiliano d'Asburgo in Messico e i campesinos.
Secondo Galeano, il suo romanzo non dovrebbe essere collocato in alcun genere: “Vorrei che lo si trattasse come un libro di storia, perché almeno in parte lo è. Vorrei che la storia venisse rivelata come una possibile meraviglia. E' davvero così. Memoria del fuoco è un insieme di voci” stipate in tre volumi in cui lo scrittore, però, prende sempre partito e mette in gioco la sua soggettività completamente, alla facciaccia delle “ferree norme” dell'oggettività storica (e qui vengono in mente le parole di un poeta nicaraguense che Galeano cita spesso, Coronel Urtecho: “Non ti preoccupare, l'obiettività non esiste. Quelli che dicono che vogliono essere obiettivi mentono. Non vogliono essere obiettivi. Vogliono essere oggetti, per salvarsi dal dolore umano”). Tre volumi in cui “emerge l'infamia, pieni di orrore”, in cui si raccontano “le cose più atroci e più belle della nostra realtà continentale”.
Un'opera straordinaria: “sentipensante”, come direbbe l'autore (“C'è una parola che hanno inventato i pescatori della costa colombiana, sicuramente analfabeti, ma molto più colti dei dottori di Bogotà, che definisce il linguaggio della verità: la parola “sentipensante”. Dicono che quando uno dice la verità parla un linguaggio sentipensante.”).
Per invogliarvi a leggerla, mi son permesso di pubblicare in talkischeap alcuni paragrafi.
Si presentano da soli.
Solo sull'ultimo voglio dire qualcosa: parla di un giornalista e scrittore argentino che io venero, Rodolfo Walsh. Il suo Operazione massacro – lo trovate nel catalogo di Sellerio - è uno dei classici di ogni tempo del giornalismo d'investigazione, un capolavoro di new journalism una decina d'anni prima del new journalism. Pubblicato nel 1957, racconta un episodio che sarebbe passato sotto silenzio se un grande giornalista (Walsh, appunto) non vi si fosse imbattuto casualmente: un massacro di civili innocenti da parte della prima giunta militare antiperonista.
Walsh, montonero (peronista di sinistra, insomma), era in clandestinità ai tempi del golpe che nel 1976 rovesciò il governo di Isabelita Peron (e del di lei Rasputin, Lopez Rega). Nel 1977, ad un anno esatto dal colpo di stato dei generali, scrisse una Carta abierta de un escritor alla junta militar che Gabriel Garcìa Màrquez definì “un capolavoro del giornalismo universale”: era una denuncia precisa, minuziosa, bruciante dei crimini della dittatura. La lettera fu inviata ai generali con tanto di firma e con gli estremi della carta di identità in calce e si chiudeva con queste parole: “Queste sono le riflessioni che nel primo anniversario del vostro infausto governo ho voluto far pervenire a voi, membri della giunta, senza la speranza di essere ascoltato e con la certezza di essere perseguitato, ma fedele all'impegno assunto tempo addietro di prestare testimonianza nei momenti difficili”.


1777, Se fosse nato donna

Dei sedici fratelli di Benjamin Franklin, Jane è quella che più gli assomiglia per talento e forza di volontà. Ma all'età in cui Benjamin se ne andò di casa per farsi strada nel mondo, Jane si sposò con un sellaio povero che la prese senza dote, e dieci mesi più tardi diede alla luce il suo primo figlio.
Da allora, per un quarto di secolo, Jane ha partorito un figlio ogni due anni. Alcuni bambini sono morti, e ogni morte le ha aperto una ferita nel petto. I sopravvissuti hanno preteso cibo, vestiti, istruzione e conforto. Jane ha passato notti in bianco cullando quelli che piangevano, ha fatto montagne di bucato e il bagno a intere bande di bambini, è corsa dal mercato alla cucina, ha lavato torri di piatti, insegnato abbecedari e mestieri, lavorato gomito a gomito con suo marito nel laboratorio e si è occupata dei pensionanti la cui pigione aiutava a riempire la pentola. Jane è stata sposa devota e vedova esemplare. E quando i figli furono ormai cresciuti, si è fatta carico dei genitori pieni di acciacchi e delle figlie zitelle e dei nipoti rimasti senza nessuno.
Jane non conobbe mai il piacere di lasciarsi galleggiare in un lago, portata alla deriva da un filo di aquilone, come suole fare Benjamin nonostante l'età avanzata. Jane non ebbe mai tempo di pensare, né di permettersi dubbi. Benjamin è tuttora un amante focoso, ma Jane ignora che il sesso può procurare qualcos'altro oltre ai figli.
Benjamin, fondatore di una nazione di inventori, è uno dei grandi uomini di ogni tempo. Jane è una donna del suo tempo, uguale a quasi tutte le donne di tutti i tempi, che ha compiuto il suo dovere su questa terra e ha espiato la sua parte di colpa nella maledizione biblica. Ha fatto il possibile per non diventare pazza e ha cercato invano un po' di silenzio.
Il suo caso non avrà nessun interesse per gli storici.


1849, Baltimora Poe

Sulla porta di una taverna di Baltimora il moribondo giace supino, a gambe larghe, affogando nel proprio vomito. Una mano pietosa lo trascina all'ospedale, all'alba, e niente più, mai più.
Edgar Allan Poe, figlio di cenciosi comici ambulanti, poeta vagabondo, reo dichiarato e confesso di disobbedienza e delirio, era stato condannato da invisibili tribunali ed era stato stritolato da tenaglie invisibili.
Si perse cercandosi. Non cercando l'oro della California, no: cercandosi.


1950, Rio de Janeiro Obdulio

Si spellano le mani, ma Obdulio gonfia il petto, picchia forte e ci dà dentro di gambe.
Il capitano della squadra uruguayana, negro prepotente e ben piazzato, non si fa piccino. Obdulio si fa sempre più grande quanto più cresce il ruggito dell'immensa folla nemica, dalle tribune.
Sorpresa e lutto allo stadio Maracanà: il Brasile, goleador, demolitore, unico favorito, perde l'ultima partita all'ultimo minuto. L'Uruguay, giocando allo spasimo, vince il campionato mondiale di calcio.
All'imbrunire, Obdulio Varela fugge dall'albergo, assediato da giornalisti, tifosi e curiosi. Obdulio preferisce festeggiare in solitudine. Se ne va a bere lì vicino, in una bettola qualsiasi; ma dappertutto trova brasiliani che piangono.
E' stata tutta colpa di Obedulio – dicono, inondati di lacrime, quelli che qualche ora fa vociferavano allo stadio. - Obedulio ci ha soffiato la partita.
E Obdulio prova stupore di averli odiati, ora che li vede uno per uno. La vittoria comincia a pesargli. Ha rovinato la festa a questa brava gente, e gli viene voglia di chiedere perdono per aver commesso la tremenda cattiveria di vincere. E allora continua a camminare per le strade di Rio de Janeiro, di bar in bar. E così, fino all'alba, bevendo, abbracciato ai vinti.

1977, Buenos Aires Walsh

Spedisce una lettera in varie copie. L'originale alla giunta militare che governa l'Argentina. Le copie alle agenzie di stampa straniere. Nel primo anniversario del colpo di Stato, ciò che sta spedendo è una specie di catalogo degli oltraggi, una documentazione delle infamie commesse da un regime che è solo capace di balbettare il discorso della morte. In calce appone la sua firma e gli estremi del suo documento (Rodolfo Walsh, C.I. 2845022). Esce dall'ufficio postale e fatti pochi passi lo abbattono a colpi di pistola e lo portano via ferito, senza ritorno.
La sua parola nuda era scandalosa dove comanda la paura. La sua parola denudatrice era pericolosa dove si balla il grande ballo in maschera.

domenica 6 aprile 2008

Mister tic goes neocon (ovvero: poi dice che uno si butta a destra!)



Intervista al politologo Richard Perle su la Repubblica di venerdì 4 aprile.
Susanna Nirenstein lo presenta così: “I suoi nemici lo chiamano il Principe delle Tenebre, i suoi estimatori lo considerano una delle migliori menti politiche di Washington. Di sicuro Richard Perle ha giocato un ruolo cruciale sia durante la presidenza Reagan e la sua netta contrapposizione all'Urss (è da allora che, mentre era sottosegretario alla Difesa, gli affibbiarono quell'etichetta che evoca tutti i mali cospirativi del mondo), sia come consigliere del Pentagono di Bush (fino al 2004) nella scelta dell'attacco all'Iraq”.
Il Principe delle Tenebre è membro dell'American Enterprise Institute - uno dei più importanti ed influenti pensatoi della Destra americana – ed è considerato un capofila dei cosiddetti neocon e un falco di quelli tosti.
Alla domanda su cosa sarebbero realmente questi famigerati neocon, Perle ci stupisce subito: “Il termine è senza significato. Molti vi identificano gente che in realtà non ha niente in comune. E' diventato un modo per definire chi è stato in favore dell'invasione dell'Iraq. Ma la realtà è che la decisione fu presa non per le pressioni di qualcuno (...). A scegliere sono stati un presidente, un vicepresidente, un gabinetto della Difesa”.
Neocon, quindi, non vuol dir niente? “Un tempo si applicava a qualche intellettuale di sinistra che, dopo la II Guerra Mondiale, aveva capito la natura totalitaria dell'Urss. La parola fu inventata da Bill Kristol: neocon era per lui un liberal che aveva sbattuto la faccia contro la realtà, i gulag”.
Quindi lei dice, incalza la Nirenstein, che non c'è nessun gruppo di pensatori neocon. Perle risponde che no, “nessuna organizzazione. Ci sono delle opinioni condivise da alcuni intellettuali e pochi politici. L'idea centrale è semplice: i valori democratici sono fondamentali per una società civile e dovrebbero essere incoraggiati dovunque nel mondo. Ma non ha niente a che fare con l'uso della forza. Non siamo pacifisti, ma nemmeno guerrafondai. E comunque questi intellettuali non hanno avuto alcuna influenza sulle decisioni di Bush, che gli intellettuali li frequenta raramente”.
I chierici, negli States, non contano un cazzo, insomma. Qualcuno pensava di si?
O, per essere giusto un po' meno tranchant, nemmeno da quelle parti esistono intellettuali legislatori, ma solo intellettuali interpreti, per dirla con Zygmunt Bauman (che cito solo perché pare faccia un sacco fico citarlo): cioè interpreti ex post di decisioni prese da qualcun altro, vedete un po' voi da chi.
Il mio problema sono state alcune risposte e alcune considerazioni che il cattivissimo Richard Perle butta lì.
In Iraq la situazione è un disastro? Secondo Perle, no. Egli sostiene anzi che “buona parte del paese sta bene” e chiede: “Perché poi chi ora vede un disastro in Iraq, non diceva quasi niente quando Saddam uccideva decine di migliaia di persone?”.
Già, perché?

Poi il nostro (vabbè, fatemela passare) afferma: “L'Occidente può difendersi, identificare i terroristi, catturarli, ma la cosa più importante è il mondo islamico: sono loro a dover decidere se tollerare l'estremismo o rifiutarlo. Se lo respingeranno, gli jihadisti non troveranno acqua in cui nuotare. Ma se resteranno indifferenti o non si riterranno responsabili, gli islamisti andranno avanti. E' una battaglia di idee”.
Ehm... Io... Condivido.
Ocio a questa: “Quando l'Iran avrà il nucleare, lo vorranno anche i sauditi e tutti gli altri: si creerà una competizione atomica nell'area più instabile del mondo”.
E sarà così, poche storie.
Che ne pensate, voi?
Ve ne importa qualcosa?
Alla domanda della Susanna Nirenstein: “In Europa molti dicono che, se vuole fermare la violenza, Israele deve parlare con Hamas. La sua opinione?”, the Prince of Darkness risponde: “Hamas non vuole la pace: è votata alla distruzione di Israele. Nessuno dovrebbe essere spinto a trattare con un'organizzazione che nega il suo diritto ad esistere. Chi lo fa, evita di condannare gli obiettivi distruttivi di Hamas e i suoi metodi terroristi”.
“Che fare, allora?”
“A volte ci sono problemi che in un dato momento non possono essere risolti. In realtà esiste un livello più profondo del conflitto che i diplomatici vogliono ignorare, ed è la spinta all'odio e alla violenza. Ho visto tanti programmi per bambini alla tv palestinese con ragazzini di 6/7 anni che indossavano le cinture esplosive: che futuro ha un'infanzia cresciuta così? A chi suggerisce di trattare con Hamas, rispondo parlategli voi e ditegli di smettere”.
Beh, mi dispiace per il tizio qui sotto, che io ho sempre stimato e seguito (anche nei - suoi... E un po' pure nei miei - momenti più bui), ma secondo me ha ragione Perle: con Hamas non si tratta. Almeno, non in questo momento...
Tra l'altro, li ho visti anch'io quei programmi della tv palestinese di cui rifersisce Perle: danno il voltastomaco, sapete?
Finale col botto: “La Fiera del libro di Torino. Perché Israele è così spesso l'obiettivo di boicottaggi nelle università, nei progetti culturali?”
“Ci sono tante dittature che meriterebbero i boicottaggi, eppure gli intellettuali di certa sinistra passano il tempo a chiedere di boicottare la democratica Israele. Per quella sinistra è una bancarotta morale”.
Beh, si sarà capito: su certe cose io sono perfettamente d'accordo con Perle.
Si, sono d'accordo con questa canaglia di destra.
Sono d'accordo con questo amico di assassini.
E adesso potete pure tirarmi addosso uova e verdure assortite.
Va di moda a sinistra, no?


P.S.

Per farmi perdonare questa intemerata destroide, vi prometto che ascolterò per almeno cinquanta volte di seguito, in piedi, mano destra sul cuore, Sweet Neo Con dei Rolling Stones.
Conoscete?


You call yourself a Christian
I think that you’re a hypocrite
You say you are a patriot
I think that you’re a crock of shit
And listen, I love gasoline
I drink it every day
But it’s getting very pricey
And who is going to pay
How come you’re so wrong
My sweet neo con.... Yeah
It’s liberty for all
’Cause democracy’s our style
Unless you are against us
Then it’s prison without trial
But one thing that is certain
Life is good at Haliburton
If you’re really so astute
You should invest at Brown & Root.... Yeah
How come you’re so wrong
My sweet neo con...


E via andare...
Che Mick Jagger sia con voi.

venerdì 4 aprile 2008

Quarant'anni ad oggi


Martin Luther King
(Memphis, Tennessee, 4 aprile 1968)

giovedì 3 aprile 2008

Parole celebri dalle mie parti (n.5)


"Non domando mai di che razza è un uomo.
Mi basta che sia un essere umano.
Nessuno può essere qualcosa di peggio."

(Mark Twain)

martedì 1 aprile 2008

La Resistenza prêt-à-porter

Gianfranco Fini (professione: maggiordomo) deve aver detto a qualcuno, da qualche parte, che si attende la sparizione della sinistra radicale dopo le prossime elezioni politiche.
Bertinotti Fausto, il Grande Timoniere della Sinistra Arcobaleno, gli ha risposto da Bari, a stretto giro di posta: “Fini non illuderti. Il 13 aprile non ci sarà, come tu speri, la liberazione dell'Italia dalla sinistra. Perché l'Italia si è già liberata: il 25 aprile del 1945, e dal fascismo”.
Ovazione del pubblico presente.
Pavlovianamente presente.

P.S.

Qui sopra, il candidato premier della Sinistra Arcobaleno, Bertinotti Fausto, ospite del salotto della signora Guya Sospisio, immortalato con la padrona di casa (al centro) e con Donna Assunta Almirante. Bertinotti Fausto è quello a sinistra nella foto.