venerdì 29 febbraio 2008

Attualità del Marxismo


Ho riletto ieri questo splendido omaggio alla memoria di Groucho Marx firmato da Italo Calvino (c'è anche una puntatina finale, noterete, sull'immenso Vladimir Nabokov. Che non ha scritto solo Lolita... )
Uscì sul Corriere della Sera il 28 agosto 1977: Groucho Marx aveva lasciato il mondo in quei giorni.
Pubblico in talkischeap convinto di far cosa gradita a qualcuno.
Lo potete trovare in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, pubblicato da Einaudi nel 1980: un libro da cui l'intelligenza tracima.
Si intitola Il sigaro di Groucho e sta a pagina 301.



Ciò che distacca Groucho Marx dagli altri grandi comici dello schermo è che la sua maschera si presenta con gli attributi esteriori del prestigio, del successo, dell'autorità, del saper vivere: sigaro baffoni occhiali abito scuro e quell'avanzare a lunghi passi a ginocchia piegate in fuori come pattinando che è la sua invenzione mimica più emblematica.
Mentre lo spazio vitale da cui i suoi due fratelli traggono la loro frenetica euforia sono la libertà l'avidità l'astuzia del nullatenente assoluto (Chico con la sua aria d'emigrante italiano della Brooklyn inizio del secolo; Harpo con la sua aria d'angelo spiritato e un po' perverso piovuto da un cielo chagalliano) - e in questo rientrano nel filone delle classiche maschere comiche da Chaplin e Keaton a Woody Allen, del disadattato patetico, del povero cane preso a calci dalla vita, dell'underdog sociale o psicologico - i ruoli che Groucho incarna sono invece sempre in qualche modo figure di potere (dittatore, miliardario, impresario, grande avvocato, professore universitario).
Ma di questo potere Groucho mette fuori tutta la sostanza ignobile, svela di quanta bassezza è impastata ogni affermazione di prestigio, di quanto cinismo ogni pretesa di rispettabilità, di come ogni successo non sia che una precaria vacanza senza illusioni prima di ripiombare al livello zero da cui si è partiti. Se le maschere dell'underdog sublimano l'insuccesso, Groucho sveste il mito del successo d'ogni possibile sublimazione, dimostra quanto l'affermazione sociale porta con sé di miserabile e di gaglioffo.
Consumato viveur e conquistatore irresistibile, Groucho insegue bionde vedove giunoniche e soprattutto i loro conti in banca, ma le sue mosse di seduttore sono così sbadate e disincantate da togliere alla conquista ogni significato e valore. Ciò che Groucho sa è che il traguardo d'ogni azione ambizione desiderio è il poco o il nulla. Per questo, in fin dei conti successo e insuccesso s'equivalgono nel suo imperturbabile sarcasmo.
Si può dire che Groucho non ha mimica facciale: la sua fisionomia è sempre ferma (in contrasto con gli stralunamenti ininterrotti di Chico e di Harpo); le sue gags sono affidate alla parola; le sue operazioni espressive consistono in cortocircuiti verbali, in fulminee discontinuità comportamentali. “Chiedo mille dollari”. “Te ne offro dieci”. “Ah, ah, ah!” Risata sprezzante e di compatimento, e poi subito: “I take it!” (“Ci sto!”)
Chico, che parla il cattivo inglese degli emigranti, e Harpo il muto, che s'esprime estraendo oggetti dalle inesauribili tasche, compensano il difetto d'articolazione con la musica. (Il primo è un virtuoso di piano, il secondo d'arpa). Groucho è la negazione della musica, è la prosaicità più brutale, è la stonatura perpetua.
Ma proprio perché rifiuta ogni autoillusione, proprio perché dissolve gli orpelli e riduce tutto a una essenza umana elementare, Groucho afferma la superiore dignità di ci si presenta per quello che è, l'innocenza di chi gioca a carte scoperte, il disinteresse di chi sa che tutte le vincite si risolvono in fumo.
Per questo sento il bisogno d'inchinarmi alla memoria di Groucho, e lo associo nel mio rimpianto a un altro grande cinico che se n'è andato quest'estate, un altro spietato osservatore del genere umano come spettacolo comico e sgradevole, un altro manipolatore dell'elasticità della lingua (dell'inglese come la più elastica delle lingue) per rendere le smorfie e i passi falsi dell'esistenza: il romanziere Vladimir Nabokov.

mercoledì 27 febbraio 2008

Poeti low cost


La campagna elettorale della Sinistra Arcobaleno è stata aperta al Piccolo Eliseo di Roma.
Peccato davvero che il candidato premier dei Sublimi Maestri Perfetti, Fausto Bertinotti, abbia deciso di non seguire il consiglio fattogli gentilmente pervenire, qualche giorno prima del Grande Evento, dal famoso poeta Nichi Vendola, Governatore della Regione Puglia (a proposito: c'è qualcuno che può indirizzarmi a qualche composizione poetica del nostro? Ci tengo veramente, sapete, a darci un'occhiata. Vi ringrazio anticipatamente, intanto. Poi magari ne parliamo in talkischeap...).
Vendola il poeta, commentando la scelta veltroniana di Spello (bel posto davvero: posso testimoniare), in Umbria, come luogo da cui dare inizio alla propria campagna elettorale (avete presente W. a Spello, vero? “Cominciare da qui, da questa piazza, da questo borgo, è un modo per dire a cosa pensiamo: non al destino di questo o quel leader, non a questo o quel partito, ma al destino dell'Italia, al nostro paese, alle gravi difficoltà del suo presente e alle straordinarie potenzialità del suo futuro” (...) “Io mi candido per cambiare il Paese, non per ricoprire una carica. Per questo, chiedo agli italiani, in questi sessanta giorni, di pensare non a quale partito ma a quale Paese” e via kennediando), il poeta Nichi Vendola, dicevo, commentava: “Noi facciamo parlare Bertinotti a Marrakech, facciamo una cosa più vivace. Quello di Veltroni sembrava un intervallo”.
Felice battuta, quella sull'intervallo: va detto. Però la può capire solo chi ricorda gli ambienti bucolici - rovine d'epoca romana, o castelli, e pecorelle al pascolo subito accanto: tutto in bianco e nero - l'arpa in sottofondo e la scritta INTERVALLO in sovrimpressione con cui la RAI provvedeva a riempire, secoli fa, i tempi morti tra le programmazioni.
Trovo splendida, invece, l'uscita su Marrakech.
Grandiosa (e meravigliosamente poetica: è roba di Nichi Vendola, non dimenticatevene).
Tutti a Marrakech! (chissà perché proprio in Marocco. E proprio a Marrakech, poi... Ma forse non son domande da porsi, ai poeti)
Credo che Nichi poeta Vendola volesse dire qualcosa del tipo: “Siccome noi della Sinistra Arcobaleno siam gente che vuole il pane, ma anche le rose, adesso si va tutti assieme, con tutte quante le persone che ci amano, a Marrakech ad aprire la campagna elettorale di Fausto nostro!”.
E certamente che voleva dire questo, come no.
Vendola voleva portarci i lavoratori precari , a Marrakech. E pure la classe operaia che la Sinistra Arcobaleno ambisce a rappresentare. Tutti, TUTTI lì, ad assistere all'incoronazione di Fausto. Non solo, quindi, il ceto politico centrale e periferico della Sinistra Arcobaleno che sarebbe stato poi presente al Piccolo Eliseo di Roma.
Occorreva, secondo lui, un gran bagno di popolo per iniziare alla grande. In Marocco. Chiaro, no? Capito? Visto anche quello che va dicendo in giro, e da tempo, Vendola Nichi poeta, e cioè che “dobbiamo presentarci come una sinistra che vuole battersi per conquistare la maggioranza dei cuori delle persone, prima dei voti”.
Quindi sursum corda, cari compagni, e tutti - ma proprio tutti - a Marrakech!
Questo, tutto questo, poeta Vendola Nichi voleva si facesse.
Ma Fausto Bertinotti, l'impoetico, non ha voluto seguire il consiglio del poeta e ha preferito aprire la propria campagna elettorale (anzi: non la propria campagna elettorale, ma la campagna elettorale della Sinistra Arcobaleno, chè loro son contro la personalizzazione della politica) al Piccolo Eliseo di Roma.

(Qui sopra, il poeta Nichi Vendola colto dall'obiettivo del fotografo in atteggiamento cogitabondo: probabilmente, sta pensando alla composizione del suo prossimo carme)

En passant, un volo da Roma a Marrakech, andata e ritorno (29 febbraio andata, 1 marzo ritorno. Solo 24 ore, o poco più. Ho calcolato così perché, a mio parere, un giorno dovrebbe bastare per andare, assistere alla cerimonia e tornare alla base. E ho dovuto, giocoforza, fingere che l'incoronazione di Fausto Bertinotti non sia già avvenuta al Piccolo Eliseo, come è stato, ma debba invece aver luogo il giorno 1 marzo prossimo venturo) costa dai 458 ai 1039 euro con la Royal Air Marocco, 853 euro con Iberia e 930 con Alitalia. Un viaggio, come vedete, alla portata di tutte le tasche. Peccato, lo ripeto, per l'occasione mancata.

martedì 26 febbraio 2008

L'impero di Gino Paoli



Sapete come succede, a volte...
Sono anni, anni, che cerchi di tirar fuori qualcosa che hai dentro, nelle profondità più recondite ed insondabili dei tuoi precordi, e non trovi le parole giuste per farlo.
Non c'è verso. Per quanto tu possa sforzarti, non ci riesci.
E un giorno arriva qualcuno che dice esattamente quello che tu hai sempre desiderato dire. Ma proprio esattamente. Parola per parola. E tu comprendi - ed è un'illuminazione, poche storie: come il satori del buddismo zen - che è per te, ma proprio per te, che quel qualcuno sta parlando. O, ed è la stessa cosa, che de te fabula narratur.
Nel nuovo disco di Elio e le Storie Tese, l'infame Studentessi, ci sono le seguenti parole dedicate a Gino Paoli e al mitico Luigi Tenco, quello che si è sparato per protestare contro il Festival della Canzone Italiana di Sanremo.

La tristezza vien vissuta come un valore negativo,
Mentre invece va vissuta come un valore positivo.
Non commettete l’errore di denigrare la tristezza.
Ad esempio Gino Paoli ci ha costruito su un impero;
Un impero conosciuto come "impero di Gino Paoli".
Ma con ciò non intendo affermare che egli abbia fatto male.
Ad esempio Luigi Tenco ci ha prosperato molti anni
Fino a quando, poveretto, non ne è rimasto sopraffatto
Salvo grosse novità dalla riapertura dell’inchiesta.


E allora io penso, per la seconda volta in meno di una settimana (l'altra è capitata ad Istanbul, davanti agli affreschi e ai mosaici della chiesa di San Salvatore in Chora), che forse dio esiste davvero.
Tu al massimo potevi uscirtene con un semplicissimo “Gino Paoli e Luigi Tenco? Oddio, che orchite!”; oppure così: “Gino Paoli e Luigi Tenco? Ogni volta che li ascolto è come se qualcuno mi scalpellasse il sacco scrotale!”; o così: “Gino Paoli e Luigi Tenco? E che stramaroni! Ma che vi ho fatto di male, gente? Fate i bravi: togliete sta roba, dai!”; e così: “Gino Paoli e Luigi Tenco? Se mai avvertissi il desiderio di mutilarmi, saranno senz'altro le loro immortali canzoni a fare da colonna sonora all'operazione!”.
Robetta, no?
E poi ti arrivano Elio, Tanica, Faso, Cesareo e Mangoni che si sono inventati 'sta cosa dell'impero di Gino Paoli e tu cadi in ginocchio, folgorato come un fagiano che si è appena beccato una bella scarica di pallini da caccia. E non hanno nemmeno paura di essere orrendi, le canaglie, come ben dimostra il verso che fa riferimento alla riapertura dell'inchiesta sulla morte di Tenco (sapete, io ho sempre compreso le ragioni di chi non si rassegnava al suo suicidio: ma si può essere così sciroccati da tirarsi un colpo per protestare contro il Festival della Canzone Italiana di Sanremo? Risposta: no! E allora, ostia, devono averlo proprio ammazzato, a Tenco).
Prima di loro c'era stato solo quel cinico meraviglioso che risponde al nome di Dino Risi che si era inventato una cosa ENORME su Sassi (“che il mare ha consumato /sono le mie parole d'amore per te”) per prendere per il culo l'imperatore Gino Paoli e la sua proverbiale joie de vivre. Ricordate (spero per voi di si, perché c'è da sganasciarsi) ne I Mostri l'episodio del povero ragazzo cieco (ma che forse potrebbe riacquistarla, la vista perduta, dice un oftalmologo dopo avergli dato un occhiata veloce) sfruttato da un Gassman davvero atroce, pochissimo interessato alla sua salute e alla sua felicità?
Do you remember? Bene. La canzone ossessivamente cantata dal cieco (un dubbio: avrei forse dovuto dire 'diversamente vedente'?) è proprio la sbarazzina Sassi (“che il mare ha consumato /sono le mie parole d'amore per te”), con la sua ormai leggendaria verve da marcia funebre.
Tra l'altro (questa ve la devo raccontare) Gino Paoli è venuto al mondo nella mia città e, a quanto ne so, non gliene è mai importato una sega. Questo magari non è bello dirlo, ma tant'è.
L'imperatore Gino Paoli si considera genovese e bona là. E mica me la sento, di dargli torto.
Insomma, un paio d'anni or sono, quando ero ancora l'assessore alla cultura del mio paesello, mi arriva un disgraziato che mi fa: “Assessore: ho un regalo per lei!”. “Caspita! – faccio io – Non doveva disturbarsi. Non era il caso!”. E lui: “Nessun problema. Lo faccio volentieri. Lo sa che giorno è oggi?”. “No”, rispondo “Non lo so. Che giorno è oggi?”. “Oggi è il compleanno di Gino Paoli! Lo sapeva?”. “Beh... No... In effetti no...”. “Immaginavo. E allora son venuto da lei a ricordarglielo: così potrà dargli un colpo di telefono e fargli gli auguri! Io credo che sia importante che ci si ricordi dei nostri concittadini illustri. Non crede anche lei? Eh? La segretaria del sindaco custodisce senz'altro il numero di telefono di Gino Paoli... Se lo faccia dare e lo chiami. Va bene?”. “Certo, certo! Come no! Grazie, grazie! Ha tutta la mia gratitudine! Lo chiamo senza meno. Senza meno!”.
E' tutto vero, lo giuro!
Quando fai l'assessore questi sono, generalmente, i fenomeni con cui ti confronti, questa l'epica che ti tocca. E ti tocca ogni giorno che gli dei dell'Olimpo mandano in terra per noi poveri mortali.
Mi commuovo sempre quando vedo quanti sono i miei concittadini ORGOGLIOSI di essere pure concittadini dell'imperatore Gino Paoli. Che se ne sbatte altamente di loro.
Fortuna che c'è Elisa. Lei c'è nata volentieri, dalle mie parti.
Concludendo, tic - che quando vede passare il genio di solito lo riconosce - ringrazia di cuore Elio e le Storie Tese.

P.S.
In Studentessi ci sono anche le bellissime parole che trovate qui sotto, dedicate ai suonatori di bonghi, categoria di patetici rompicoglioni (generalmente sinistrorsi cittadini del mondo) che mi son dimenticato di inserire nella mia personale galleria degli orrori, qualche settimana fa.
Provvederò nell'imminente seconda puntata.
Sentite un po'.
Un fricchettone forse drogato suona e non smette più.
Bonghi: questo fatto mi turba perché suona di merda,
Non ha il senso del ritmo e non leggo più il libro.
(...)
Piantala con ‘sti bonghi, non siamo mica in Africa.
Porti i capelli lunghi ma devi fare pratica.
Sei sempre fuori tempo, così mi uccidi l’Africa
Che avrà pure tanti problemi
Ma di sicuro non quello del ritmo
.

lunedì 25 febbraio 2008

Bianco e nero

Siamo arrivati ad Istanbul nel pomeriggio di domenica 17 via Milano Malpensa. Sotto una bufera di neve. Son dovuto andare ad Istanbul, quest'anno, per trovare l'inverno.
Ha smesso di nevicare il pomeriggio di lunedì 18.
Faceva un freddo. Ma un freddo.
Però è stato bello, la prima sera, dopo cena (per me un shish kebab da urlo e buona birra Efes), salire ad Aya Sofya per vederla nascondersi nel silenzio della neve. Il nostro albergo (scelto da mia moglie E. con il consueto fiuto, mettendo a sistema la solita Guida Routard e l'ormai immancabile, utilissimo sito TripAdvisor) era a meno di cinque minuti dall'entrata del Topkapi, e quindi da Aya Sofya, e a qualche spicciolo di tempo in più dalla Moschea Blu.

Nella Moschea, la più famosa della città, davvero magnifica (sei anni e qualcosa ci vollero, per costruirla. I lavori terminarono nel 1616), siamo poi entrati lunedì mattina.
Che vi posso dire di Istanbul?

Che è stato bellissimo essere accompagnati da Orhan Pamuk, nelle nostre passeggiate. Dopo aver letto il suo Istanbul. I ricordi e la città mi vergogno come un ladro, credetemi, di queste mie povere parole.
Istanbul è una mostruosità di non ho capito bene se dieci (così dice lo scrittore) o dodici milioni di abitanti (altre fonti). Impossibile da comprendere, secondo Pamuk, “secondo i metodi di ordinamento e spiegazione 'occidentali'. Naturalmente, un altro motivo di questo fallimento è la particolarità di Istanbul rispetto alle città occidentali, la sua confusione, la sua anarchia, la sua stranezza così grande e il suo disordine, che si oppone alle classificazioni ordinarie”.

Istanbul è smog, sporcizia, traffico caotico, le ciambelle col sesamo, i facchini piegati sotto il loro carico, il profumo delle spezie al Bazar Egiziano, i negozi di tappeti, a centinaia, e le richieste assillanti di chi li vende (“Entra italiano. Beviamo il tè e basta. Solo guardi i miei tappeti. Solo guardi. No fregature”), i pescatori sul ponte di Galata, le barche arrugginite e malmesse, la miseria indicibile del quartiere di Fatih e le vetrine chic di Istiklal, i bruttissimi palazzi in cemento armato degli anni sessanta e settanta dalle facciate incolori, le sirene dei battelli, le mura bizantine in rovina, la spazzatura nelle strade, i cani randagi, i gatti rispettatissimi, le antiche fontane senz'acqua.
Una città in bianco e nero, scrive Pamuk, un luogo dall'anima malinconica: “Una parte di questo sentimento in chiaroscuro riguarda, naturalmente, la miseria e la storia della città, un luogo ormai al tramonto, dimesso e desolato, pieno solo di rovine. (...) Il fatto che gli abitanti di Istanbul, dopo il crollo di un grande impero, fossero condannati a una miseria eterna, quasi avessero una malattia incurabile, al cospetto di un'Europa che pure non è lontana geograficamente, alimenta quest'anima malinconica della città.
Per comprendere meglio l'atmosfera bianca e nera di Istanbul, che accentua questo senso di tristezza e lo rende inesorabile, quasi fosse un destino comune a tutti gli abitanti, è necessario atterrare qui da una ricca città occidentale e mettersi a girare subito per le strade affollate, oppure andare sul ponte di Galata, che è il cuore di Istanbul, e vedere la folla di persone che vagano qua e là con gli abiti sempre di un colore anonimo, pallidi, grigi, ombrosi
”.
Ed è proprio così, Istanbul, vedete. Bellissima e triste.
Ad Orhan Pamuk, ho scoperto, piace poco quello che sulla città scrisse Iosif Brodskij nel 1985 in un lungo articolo pubblicato sul New Yorker col titolo Fuga da Bisanzio. Ma...

Brodskij, influenzato dallo stile di un libro di Auden che parlava dell'Islanda in modo ironico e sprezzante, fa un lungo elenco dei motivi del suo viaggio (in aereo) a Istanbul, come se si dovesse giustificare. In questo articolo, che per il suo sarcasmo ferì anche me che in quel periodo ero molto lontano dalla mia città e volevo leggere qualcosa di bello su Istanbul, mi piace comunque la sua frase che dice:”Come tutto è datato in questa città!” E insisteva: “Non vecchio, arcaico, antico o fuori moda, ma datato”; e aveva ragione. Quando crollò l'impero ottomano e la Repubblica turca, impegnata nell'impossibile impresa di definire la propria identità, si staccò dal mondo, Istanbul perse la sua vecchia connotazione plurilinguistica, vittoriosa e magnifica, e si trasformò in un luogo spopolato, vuoto, bianco e nero, con una sola voce e una sola lingua, in cui tutto pian piano diventava datato”.
Insomma, se non ci siete mai stati, ad Istanbul, e un giorno deciderete di andarci, non cercate l'esotismo, avrete inteso. Non cercate il pittoresco: Istanbul è una città datata.
Siate saggi e limitatevi a cercare la bellezza: ce n'è moltissima. E aspettatevi una città in bianco e nero (vabbé: andarci a febbraio credo un po' aiuti, e non tutti possono, lo so).
Cose belle che tic ha visto, assaggiato e annusato?

Quello che i turchi chiamano Yerebatan Sarayi, il “Palazzo sommerso”: una cisterna bizantina lunga 140 metri, larga 70 e alta 8, dotata di 336 colonne suddivise in 12 file da 28 ciascuna. Costruita dall'imperatore Costantino e restaurata nel 542 da Giustiniano, garantiva l'approvvigionamento d'acqua al Gran Palazzo, la residenza degli imperatori di Bisanzio.

Fino a non troppo tempo fa si poteva anche visitare in barca, come fa Bond, James Bond, in Dalla Russia con amore, film che in parte è girato ad Istanbul.

Il tramonto sul Ponte di Galata.

I tesori del Topkapi (tra cui la famosa daga del film sceneggiato dal mio amatissimo Eric Ambler).

La sala della necropoli di Sidone al Museo delle Antichità, con quella cosa magnifica che è il cosiddetto sarcofago di Alessandro (del IV secolo a.C., appartenente a un satrapo persiano): le sue sculture raffigurano i fatti militari salienti della vita di Alessandro Magno e recano ancora traccia dei colori con cui erano dipinte.

I dipinti murali, gli affreschi su base d'oro e i mosaici della chiesa di San Salvatore in Chora, considerati da molti i più belli del mondo bizantino. Dopo la presa di Costantinopoli, nel 1453, i turchi ricoprirono tutto con la calce quando decisero di trasformare la chiesa in moschea: forse è proprio per questo fatto che tutto quanto appare così lucente, così vivo.

(Ve lo confesso: nell'ora che sono rimasto dentro San Salvatore in Chora, con il naso per aria e a bocca aperta, ho pensato spesso che, forse, dio esiste davvero.)
I gatti che dormivano dentro Aya Sofya. Indisturbati e imperturbabili (per dire, in Aya Sofya ho visto correre una pantegana grande come una carrozza e di conseguenza mi sono prodotto in un salto in alto da competizione accompagnato da un terribile urlo di disgusto. Bene: la cosa non sembrava riguardare manco di striscio i felini beatamente ronfanti).
I manti, piccoli ravioli ripieni di carne serviti in salsa allo yogurt, con spezie e menta.
Il caviale del Caspio assaggiato al Bazar Egiziano.
Le cozze fritte, mangiate in un ristorante davanti al mare di Anadolu Kavagi.
La vista sul Mar di Marmara, sulle Isole dei Prinicipi e sulla parte asiatica della città dalla nostra camera d'albergo (Empress Zoe, a Sultanahmet: consigliato. Trust in tic).

sabato 16 febbraio 2008

A(r)miamoci e partiamo!

Per qualche giorno tic non seguirà il suo blog.
E' in partenza per Istanbul, il nostro.
Lo accompagna l'amatissima moglie E., che è quanto di più vicino alla santità egli riesca ad immaginare. Et pour cause, avendolo lei sposato (povera anima).
Oltre a Santa E., gli saranno compagni d'avventura (vabbé, dai...):
Orhan Pamuk che racconta la sua città,Charles Diehl e le sue figure bizantine (testo veramente bellissimo: tic ha già iniziato a leggerselo, perciò lo può dire) e Charles King con la sua Storia del Mar Nero (editore Donzelli).


Si ritorna alla base sabato 23.
Bacini.



P.S.
A Istanbul, domani, è prevista neve...

«Nel mondo di cui auspico la nascita non mi trovo a mio agio» (dai diari di Bertolt Brecht)



Dev'esser stato un lavoraccio infame: i 54 taccuini (per meglio dire, alcuni son piccoli taccuini da giornalista, altri quaderni piuttosto voluminosi in formato Din A4) di cui si compone il diario di Bertolt Brecht erano scritti, a matita, in una calligrafia terribile: al limite dello scarabocchio, dicono.
Peter Vilwock e altri studiosi di letteratura dell'Accademia delle Scienze di Heidelberg li hanno decifrati e si accingono a pubblicarli.
Der Spiegel ha già anticipato qualcosa e la Repubblica, con Andrea Tarquini, ha ripreso.
Quello che esce dal suo diario è un Brecht enormemente più simpatico: almeno a me... Un tizio incasinatissimo che navigava il mare del dubbio senza bussola e senza carte nautiche, innanzitutto. Non un marxista tutto d'un pezzo, decisamente. "Non eroe fideista dell'interesse collettivo – annota Tarquini - bensì intellettuale legato all'individualismo borghese”.
Brecht appare, a più riprese, assai preoccupato dalla fine che avrebbe fatto l'individuo nella società (finalmente perfetta, ça va sans dire) di cui i suoi compagni comunisti auspicavano l'avvento. “In un Collettivo che cresce”, si chiedeva, il singolo individuo non avrebbe forse rischiato di essere ridotto "a brandelli"? Come avrebbe potuto essere garantita la sua unicità?
A questa domanda così rispondeva: “ Attraverso la sua appartenenza a qualcosa di più che non un collettivo”. Cosa poi fosse, questo qualcosa, non si capisce (capiremo?). Ma chissenefrega della vaghezza della risposta, povero Bertolt (umanissimo Bertolt): importa la domanda...
E sentite qui: “Non lo ammetto volentieri, ma disprezzo chi è infelice e in disgrazia”. Fosse uscita una quarantina d'anni fa, questa cosa, avrebbe fatto scandalo. Adesso, mah, non credo proprio. E va bene così, intendiamoci.
Mi piacerebbe, però, che ci fosse, da qualche parte, un qualche caifa marxista di quelli tosti, duro, puro e assertivo assai, pronto a stracciarsi le vesti davanti al tradimento (categoria interpretativa che comunque non è mai passata di moda, tra i nostri sinistri tutti d'un pezzo) di Brecht.
Così, tanto per farsi un paio risate.
Sono un po' infantile, vero?

giovedì 14 febbraio 2008

La cosa più bella che ci è toccata

Ieri sera ho ascoltato, dopo diversi mesi, alcune canzoni degli Smashing Pumpkins. Alcune da Siamese Dream (secondo molti, il loro disco più bello), altre da Mellon Collie and the Infinite Sadness (secondo un sacco di gente, il loro lavoro più completo: la summa del loro suono – Marc Bolan schiantato sui Black Sabbath, ebbe a scrivere Alberto Campo - e del loro modo di scrivere canzoni, ci intendiamo?). Sono stati, i Pumpkins, una delle band più grandi di sempre: non solo, quindi, di quegli anni Novanta del XX secolo che li hanno visti esplodere (in tutti i sensi, purtroppo per loro e pure per noi).
Io ho amato tantissimo la scrittura di Billy Corgan e il suo incredibile talento per la melodia infallibile. E mi garbava pure, giuro, la sua vocetta un po' così... Come dire? Di gola, va bene? A volte carezzevole e sussurrante, altre volte isterica e miagolante: chi la conosce, capirà.
Nei suoi (e miei) golden days è stata LA rockstar generazionale del vostro tic: lui classe 1967 (come Cobain), io 1968.
E l'immagine che avevano, i Pumpkins: James Iha che cambiava colore di capelli in continuazione e talvolta esibiva una striscia di capelli bianchi à la Cruella De Ville e D'arcy, la bassista bionda e pallida, e Jimmy Chamberlin quel tossico del cazzo e Corgan, Corgan con i suoi sorrisetti indisponenti e l'arroganza del leader.
E insomma, ieri sera ho ascoltato '1979', da Mellon Collie... Con il testo davanti. E ho ricordato un sacco di cose, sapete? Alcune troppo personali per trovare posto in talkischeap.
Altre no e allora eccoci qua.
'1979' era un singolo perfetto. Un grande pezzo pop che parlava di quanto forte si può amare e odiare, da adolescenti. E di come ci si sente onnipotenti ( We were sure we'd never see an end to it all), e poi del vuoto, della noia (the vacant and the bored), degli amici che perdono sé stessi (Justine never knew the rules/ hung down with the freaks and the ghouls) e di correre, correre, correre: più forte di quanto si sarebbe mai sperato di poter fare (faster than the speed of sound/ faster than we thought we'd go, beneath the sound of hope).
Aveva, '1979', un videoclip bellissimo. E mi sono ricordato che Sandro Veronesi (riparliamo di lui) su quel video scrisse un pezzo molto bello pubblicato da l'Unità (L'adolescenza racchiusa in un video, giovedì 18 aprile 1996). Eccovelo qui di seguito. Spero che almeno qualcuno gradisca...



Ogni tanto viene fatto anche qualcosa di profondo, sul tema dell'adolescenza. Ora è più difficile da intercettare, visto che l'adolescenza, prima che un mito o uno stato ormonale è diventata soprattutto un target, un sistema di vasi comunicanti che dal pozzo nero dove si riversano fiumi di merci scadenti sbocca nel pozzo di San Patrizio dal quale escono ricchezze inaudite: ma viene ancora fatto.
Quest'anno nel magma brulicante di dischi, film, romanzi, concerti e serial televisivi che spenna i ragazzi dell'Occidente (ricchi tutti, per l'industria di massa, anche quelli poveri), spicca una piccola opera di commovente profondità, oltre che di una bellezza quasi accecante. Si tratta di un videoclip, nientemeno, un prodotto cioè che di solito viene concepito, confezionato e offerto al consumo nella più stucchevole condiscendenza verso il suddetto sistema di pozzi comunicanti. Invece questo è davvero grande, e chi lo ha visto lo sa: è il video degli Smashing Pumpkins intitolato “1979”.
In quei cinque minuti scarsi, infatti, si compie il raro processo di sintesi di differenti stati di grazia, e l'effetto è quasi doloroso, da tanto è toccante. Il
prodotto vero e proprio è naturalmente l'omonimo brano musicale, o meglio il disco - doppio, e già questo oggi è una rarità – che lo contiene intitolato “Mellon Collie and the Infinite Sadness”; o meglio ancora, in una strategia più propriamente industriale, è addirittura Billy Corgan stesso, leader del gruppo e vera nuova Testa Pensante della musica rock.
Tutti – brano, disco e musicista già molto belli di per sé: il video, perciò, dinanzi a un tale spargimento di bellezza, avrebbe potuto risultare sovranamente inutile, l'ennesimo medaglioncino patinato pieno di modelle smaglianti che deve semplicemente invogliare a consumare il prodotto. Invece è proprio lì che si compie l'opera.
Le immagini sotto la voce di Corgan che rievoca la sua
melan-colia adolescenziale (“e non sappiamo nemmeno dove riposeranno le nostre ossa/ In polvere, suppongo/ Dimenticate e assorbite sottoterra/ La strada scandisce l'urgenza di suoni/ E come puoi vedere non c'è nessuno intorno”), sono un piccolo gioiello di cinema “doom”, che aggiorna il mito dell'adolescenza all'attuale decadenza di massa. Vi si vedono alcuni quindicenni alle prese con disparate prodezze adolescenziali (corse in macchina, rave party, irruzioni notturne in piscina, raid nei drugstore, goffi tentativi di scopata nella vasca da bagno), e non so come, non so davvero come, si capisce subito che tutto quello ci riguarda: anche se a quindici anni si faceva tutt'altro in tutt'altri posti, c'è qualcosa in quelle immagini che viene direttamente da dentro di noi.
La stessa cosa che si avverte leggendo gli adolescenti di Salinger, o vedendo film come “Rusty il selvaggio” e serial TV come “Twin Peaks”. Quel dubbio, ecco, di essere sempre stati dalla parte sbagliata, e di averla letteralmente dilapidata, l'adolescenza, in un dolore obbligatorio e insensato.
I ragazzi di “1979”, infatti, come Holden Caulfield, come James Dean – come noi -, sono irrimediabilmente
perbene, e nel seguirli mentre fanno di tutto per rotolarsi nella wild side par di vedere soltanto le future vittime di un serial killer sgranate nei video amatoriali girati pochi giorni prima della tragedia - quelli che poi, nella requisitoria, chiedendo la pena di morte per l'imputato, la Pubblica Accusa definirà “ragazzi modello, stroncati nel fiore della loro età più bella”: e la giuria ci crederà, perché è vero, sono loro il modello di adolescenza dell'Occidente Evoluto, la più perversa e ricca e infelice e minacciata e assurda adolescenza di tutti i tempi; e in fondo, come dice anche Deslauriers alla fine dell'Educazione Sentimentale, quella lancinante disperazione di allora ('59, '69, '79 o '89 che sia), “è davvero la cosa più bella che ci è toccata”.

Langueur




Conosciamo le circostanze del ritrovamento dell'elmo di Vézeronce grazie ad una relazione presentata al il 28 novembre 1871 al Consiglio municipale di Grenoble. C'è da ridere: sentite un po'.
Nel giugno 1870 il signor Burty, proprietario terriero di Vézeronce, estrae dalla torba e disseppellisce a ottanta centimetri di profondità un oggetto incrostato di materie terrose che si rivela essere un elmo. Confuso dal ritrovamento, lo cede per tre franchi e due bottiglie di vino a un rigattiere di Vézeronce. Questi lo rivende per dieci franchi a un certo Bourdin di Saint-Victor-de-Morestel, che lo cede a sua volta per duecento franchi a uno studioso del luogo, il signor Bron di Nivolas. Quest'ultimo, convinto che il prezzo presenti un evidente interesse per la storia locale, lo propone per una somma di mille franchi al museo-biblioteca della città di Grenoble. Grazie all'occhio di un professore di storia di Grenoble, il pezzo viene identificato come elmo merovingio, raro e unico vestigio della battaglia di Vézeronce”, che contrappose Franchi e Burgundi e che conosciamo grazie alla cronaca di Gregorio di Tours (538-594). E insomma, quando ci si convince che il professore di storia suddetto ci ha azzeccato, la città di Grenoble sceglie di pagare i mille franchi ed “acquistare a tale prezzo, per il suo museo di antichità, quello che gli sembra essere 'una perla nelle collezioni più ricche del mondo'. Assegna inoltre al signor Burty un indennizzo di venticinque franchi per risarcirlo della scoperta”.
La storia dell'avventuroso salvataggio di questo incredibile elmo da alta uniforme (attenzione: da alta uniforme. In linea generale l'elmo veniva raramente portato dai guerrieri dell'Alto Medioevo), probabilmente appartenente ad ufficiale, è raccontata da Isabelle Lazier nel bellissimo (ma davvero, eh!) catalogo che accompagna la mostra “Roma e i barbari”, in corso a Palazzo Grassi a Venezia.
L'elmo di Vézeronce è solo una delle tante meraviglie (hanno contribuito musei francesi, italiani, tedeschi, spagnoli, americani, austriaci, belgi, bulgari, cechi, croati, danesi, irlandesi, olandesi, polacchi, rumeni, russi, tunisini, svizzeri, ungheresi e ho senz'altro dimenticato qualcuno) che ci potete trovare.
Il sarcofago di Portonaccio (dal nome del quartiere di Roma in cui è stato ritrovato), dell'ultimo quarto del II secolo d.C., che raffigura uno scontro cruentissimo tra romani e barbari, credetemi, è incredibile: Yann Rivière fa notare che il greco Filostrato, autore delle Imagines, usava l'espressione 'frustare gli occhi' per descrivere l'effetto prodotto da una profusione ('inestricabile confusione') di corpi umani, cavalli, armi. Ed è proprio così, vedete: una frustata agli occhi. Da togliere il fiato.
E poi, per dire, il busto dell'imperatore Marco Aurelio ritrovato ad Avenches, in Svizzera, in oro lavorato a sbalzo, ovvero uno dei tre soli ritratti romani realizzati in oro scampati al processo di rifusione. Si ignora quale impiego avesse un busto di questo tipo: forse ornava l'asta di uno stendardo portato da un insignifer alla testa di una legione, o forse era un oggetto rituale utilizzato nel quadro del culto imperiale che probabilmente veniva celebrato nel santuario del Cicogner ad Avenches.

A Palazzo Grassi ci sono stato domenica scorsa con mia moglie e, come forse avrete intuito, sono uscito entusiasta dalla mostra. Salti così, facevo.
Il catalogo - a cura di Jean-Jacques Aillagon, per anni testa pensante al Centre Pompidou di Parigi - è, lo ripeto, un gioiello (nel senso che costa una bella botta di soldi, 48 ricchi euro. Ma li vale tutti, e forse persino qualcuno di più). Indispensabile, secondo me, per capire quanto e come questa mostra sia stata pensata. Ovvero, oltre gli stereotipi: perché le invasioni barbariche non sono state solo l'improvvisa calata selvaggia dei 'barbari biondi' sull'impero romano 'à la fin de la décadence' (per citare Langueur di Paul Verlaine e cagare, come al solito, fuori dal vaso) di cui i 'popoli civilizzati' sarebbero stati le vittime. Per secoli, da Costantinopoli al Reno, dal Danubio esse furono anticipate (uso le parole del presidente di palazzo Grassi, il boss François Pinault - o quelle del suo ghost writer: ma fa lo stesso perché son belle parole) “dal sordo infrangersi delle tradizioni che si rivelarono permeabili tra loro, dallo sfiorarsi di due mondi che avevano imparato a conoscersi prima di affrontarsi, da scambi, da unioni tra stirpi, trattative, mutamenti e persino conversioni alla nuova fede che seminava in tutta Europa le sue prime chiese. Si tratta di una metamorfosi, il cui principale vettore è stato, ancora una volta, l'arte”.
E su queste parole di amore per l'arte e di fede nel potere dell'arte, chiudo.
Fate un saltino a Venezia. Trust in tic. In tempi di balorde, sgangherate teorizzazioni dello 'scontro di civiltà', questa mostra (che dura fino a luglio) rappresenta un piccolo atto di resistenza umana.

lunedì 11 febbraio 2008

In panchina



Una domanda: ma valeva proprio la pena di affidare la promozione di questo bel film alla storia della scena di sesso (torrida, ha scritto qualcuno: ah, ah, ha... Che simpatici burloni!) tra Nanni Moretti e Isabella Ferrari?
E' vero che si tratta di una scena importante, nell'economia della storia, ma via... Non era il caso.
E tutto questo insistere sul fatto che, perdio, la scena del coito selvaggio è interpretata da Nanni Moretti, capito? Ahò: ma avete inteso, si? Da Nan-ni Mo-ret-ti! Lui, proprio lui, che non indulge mai al solletico degli istinti più elementari (perché troppo ieraticamente serio, troppo accigliato lassù in alto, dove l'aria è rarefatta) stavolta si è prestato a mostrar le chiappe chiare. Un fatto veramente eccezionale, no? Per una cosa così non vale forse la pena di pagare il biglietto ed entrare?
E mò a che devo pensare? Al cinismo dei produttori? Alla volontà, un po' snob, di prendersi gioco del pubblico beota e di certi meccanismi scemotti assai della società dello spettacolo?
E se non pensassi a niente, che mi pare meglio?
Prima di Caos calmo, l'ultimo film italiano da me visto al cinema fu, qualche mese fa, La ragazza del lago di Andrea Molaioli. Me l'avevano presentato come un'opera notevole, ed invece - sia maledetta la mia credulità e siano maledette le recensioni del primo che passa – era proprio la solita operina del solito registino italianino-ino-ino. Una robina che manco alla tivvù varrebbe la pena. Dice: ma c'era Toni Servillo, che è uno bravissimo. Embé?
Giurai, quella volta, che sarebbero passati anni prima che tornassi al cine per l'operina poverina del registino italianino. Ne ho abbastanza, mi dissi, della sciatteria formale, dell'insipienza tecnica, delle sceneggiature haiku: in generale, di quella sensazione di vorrei, vorrei tanto, ma, vedete, proprio non posso, che ti lascia addosso (mi lascia addosso) praticamente ogni operina-ina-ina del nostro cinema nazionale da anni anni e anni a questa parte. Basta. Adesso basta! (è tutto vero, eh: chiedete a mia moglie come stavo incazzato)
E invece a vedere Caos calmo ci sono andato (per Nanni Moretti che si strofina con Isabella Ferrari? Potere di sesso e carnazza, sesso e lussuria? Chissà...).
E mi è piaciuto.
Sarà che in questi ultimi mesi la mia vita è cambiata (in meglio) perché ho deciso anch'io (senza una tragedia che mi spingesse a farlo, però...) di chiamarmi fuori, per un po'. Di andare a sedermi in panchina per guardare la partita da lì. Di fermarmi un momento a respirare. Di salutare e via. Sarà tutto questo e magari pure altro e quindi forse Caos calmo mi ha pescato in un momento particolare: ha trovato il terreno arato, insomma.
Sarà.
Ma ho visto un bel film, sabato sera.
Una parabola agrodolce su quanto nella vita sia importante dare sempre il giusto peso alle cose e chiamarle con il loro nome.
Perché ogni cosa ha il suo nome, e quindi i farabutti li dobbiamo chiamare farabutti - magari bestemmiando a cuore aperto come fa il personaggio interpretato da Silvio Orlando - e gli amici amici, la merda merda e l'amore amore. Perché le parole (come diceva quello: ahi ahi ahi ahi...) sono importanti.
E, già che ci siamo, dobbiamo pure imparare a dire le cose giuste esattamente quand'è il momento di dirle. E anche imparare (o tornare) ad essere chiari (ma questo è Umberto Saba, direi).
Ecco, magari in Caos calmo tutto questo non c'è. Fatto sta che io ce l'ho visto.

Non ho letto il romanzo di Sandro Veronesi da cui è tratto il film di Grimaldi, ma lo farò senz'altro e lo farò presto.
Voglio capire se dice qualcosa in più rispetto al film.
Qualcosa che mi riguardi, intendo.
Nel caso lo facesse, grazie in anticipo.

venerdì 8 febbraio 2008

Moratoria (adesso che vanno di moda le moratorie, mi ci butto anch'io. E checcazzo! Son mica il figlio della serva...)

Oggi su la Repubblica c'era scritto che W. ha lanciato lo slogan della sua campagna elettorale. Eccolo.

"Si può fare".


Mi piace un bel po'.
Mi ha ricordato l'esclamazione del dottor Frankensteen (interpretato da Gene Wilder) quando capisce che a suo nonno, il vecchio Viktor, è riuscito di infondere la vita in una cosa morta.
SI PUO' FARE!!!
E' impossibile che W., coniando il suo slogan, abbia pensato solo a Barack Obama e al suo "Yes, we can".
Impossibile.
Ovvio che il nostro, da appassionato di cinema, ha pensato pure a Frankenstein Junior e a Mel Brooks.
Mi ci gioco quello che volete.

Detto ciò, vi giuro che per un po' di tempo (facciamo fino alla metà di aprile?) non dirò più scemenze su W.
Ho deciso (unilateralmente: questo è fin troppo ovvio) una moratoria di tutte le cazzate che il mio cervello malato potrebbe partorire sul boss del mio beneamato partito.
Lo faccio perché ho visto che la decisione di W. di far correre il PD in (splendida?) solitudine nella prossima campagna elettorale ha sollevato un vero putiferio tra le cime abissali della sinistra radicale.

Se W. fa incazzare gentaglia come Diliberto o Pecoraro Scanio, poche storie: ha ragione lui.
E io che (oltre ad esser molto snob) son faziosissimo, quando voglio, non posso che stare al suo fianco.
Meglio un brutto male, meglio la scabbia, il cimurro, la gonorrea, la gotta, un avvelenamento da funghi, la galera a Cuba, leggere Libero, essere un barbone nell'inverno moscovita, meglio tutto questo che avere di nuovo come alleati i signori Diliberto e Pecoraro Scanio (e spero che il PD tenga duro pure su quel brutto buzzurrone che risponde al nome di Antonio Di Pietro).
Alla sinistra dei puri, dei sublimi maestri perfetti, beh... Mi pare che abbiamo già dato. E tanto.
Pure troppo.
Sic transit gloria mundi.
Ite, missa est.

giovedì 7 febbraio 2008

L'orrore... L'orrore...








1 - La possibilità che gli Inti Illimani possano interpretare Fernando degli Abba.
2 – Gli occhi imbambolati dei vecchi davanti ai cantieri edili.
3 – La mascella di Ridge Forrester.
4 – Gli scout.
5 - “Ma poi ti ho scritto solo grazie per avermi dato tu la vita, ti ho scritto amore, solo amore sì, sei tu il mio Signore. Sei solo tu... Sei solo tu... “ (do you remember Padre Cionfoli?).
5 – Gianni Minà inginocchiato davanti a Fidel Castro (Fidel Caftro! Un mito degli anni Feffanta! Come Caffiuf Clay!).
6 – Il flauto dolce.
7 – Fabio Volo che recita.
8 – Fabio Volo che scrive romanzi.
9 – Il falsetto dei Bee Gees.
10 - Voglio vivere in campagna, “io che sono nato in campagna ricordo nonno Silvio e la vendemmia ma vivo qui in città, dove sei nata tu ma la nevrosi è generale la confusione che ti assale ti butta giù e io non mi diverto più” (T. Cutugno). No, dico... Avete notato come si chiama il nonno?
11 – I comici di sinistra tra Zelig e Le jene. Quelli come Bisio, che “a Mediaset c'è libertà. Mai avuto problemi!”.
12 – Il cespo di capelli del signor Branduardi Angelo (e anche la pulce d'acqua che l'ombra ti rubò...).
13 - Costantino Vitagliano l'arcitaliano ('e mamma soia).
14 – La bocca inutilmente larga di Simona Ventura.
15 – I titoli dei meeting riminesi di CL.
16 – La faccia di Karl Lagerfeld.
17 – Monsignor (e sticazzi!) Elio Sgreccia.
18 – I romani scoglionati Francesco Rutelli e Paolo Gentiloni (qui sotto, la faccia di uno dei due. Basta, ad esemplificare).
19 – Michele Santoro, il Perseguitato Politico Istituzionale, che mugugna “Bella ciao” prima di mettersi a sparare le sue solite cazzate: indimenticabile!
20 – Lo sguardo ammaliatore di Maurizio Gasparri.
21 – Le poesie (emetico-ermetiche) di Sandro Bondi.
22 – Quell'hobbit grullo e obeso innamorato perso del suo padron Frodo.
23 – La Macarena e tutti che ballano!
24 – El Meneito e tutti che ballano!
25 – Lucio Dalla dell'Opus Dei.
26 – E, visto che ci siamo, il beato Escrivà De Balaguer, detto El Generalìsimo (ops...).
27 – Vissani. Lo chef de noantri de sinistra.
28 – Andrea Boccelli.
29 – El Pancho Pardi.
30 – I Cugini di Campagna.
31 – Le gemelle Cappa.
32 – Pietro Ingrao, quello che voleva la luna. Ma ci sono arrivati prima Armstrong, Collins e Aldrin, sulla luna. E molto prima di loro, a quanto ne so, un certo Astolfo. Povero, povero Pietro Ingrao che voleva la luna...
33 – Piero Pelù quando dice: “Terremuuuuuooooooto” (e comunque, sempre).
34 – Il Milan.
35 – Il Codice Da Vinci.
36 - Quel coglione di un pugile quando urla: “Adriaaaaaaanaaaaaaa!!!!!”
37 – Quando i bambini fanno OOOOOOOOHHH.
38 – Gigi D'Alessio. E ci capiamo, no?
39 – Il Gabibbo e il giornalismo d'inchiesta italian style.
40 – Klaus Davi, massmerdologo.
41 – Vasco Rossi che, come fanno da sempre tutti i rocker nati a Zocca, si rivolge al suo scelto pubblico con un sapido EEEEEEEEEEEEEEEEEEI!!!
42 – Il signor So Tutto Io, Voi Non Capite Mai Un Cazzo.
43 – Pietrelcina.
44 – Lourdes.
45 – Medjugorje.
46 – Il (povero) Giovanardi (ma lo sapete che questo pirla ha pure un fratello gemello? Cioé, ce ne sono due uguali, di Giovanardi: ma ci rendiamo conto?).
47 – L'evasore fiscale (ma, urca, spiritosissimo!!!) Valentino Rossi. Valentino, Valentino! Dicci che rumore fa la tua moto... Ah, che simpatico, questo Valentino!!!
48 – Fabio Capello, il rude sergente di un cazzo di niente.
49 – Il Festival della Canzone Italiana di Sanremo (tutte le edizioni).
50 – Miss Italia.
51 – L'ennesimo romanzo con un serial killer molto fantasioso come protagonista.
52 – I pitbull (prevengo l'obiezione: non i loro padroni che li rendono cattivissimi, ma proprio loro, 'sti stronzissimi cagnacci dal brutto muso fascista).
52 – Don Vitaliano Della Sala, il cappellano dei simpatici (e civilissimi!) Disobbedienti.
53 – La Madonna di Civitavecchia.
54 – Il sangue di San Gennaro.
55 - “Siamo tutti figli della foca, e io non voglio che mia madre muoia” (A. Celentano).
56 – L'aeroporto della Malpensa.
57 – Mogol (con chiunque. Mica solo con Battisti).
58 – Thyssen Krupp.
59 – Siddharta di Hesse.
60 – Le canne, una partita di calcio con gli amici, Diego Abatantuono, noi, verso il Marocco o il Messico, in fuga dal mondo e i 99 Posse nella colonna sonora. Indovina indovinello: chi è il regista?
61 – Il cantante tatuato e panzone dei 99 Posse (che credo si siano sciolti, alla fine: alleluja allelujà).
62 – I giovanissimi (e romanticissimi...) lucchettatori di ponti.
63 – Una storia italiana.
64 - “Ci sono molti spezzoni di film, la scena del processo in Sacco e Vanzetti di Montaldo, la lettera di Giorgio Ambrosoli alla moglie in “Un eroe borghese” (l'onestà e l'amore per il bene comune, rarità). L'ultimo comizio a Padova e l'estremo sorriso di Berlinguer, davvero una reliquia. Infine “Bobby”. L'uccisione di Kennedy e le sue parole” (Concita De Gregorio a proposito di una delle lezioni di W. sulla “buona politica”. Non sembra il Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti che crede in quella famosa grande Chiesa che da Che Guevara arriva fino a Madre Teresa passando per casa Muccioli/Moratti a San Patrignano?).
65 – Cherubini Lorenzo, l'Artista Una Volta Conosciuto Come Jovanotti (già che ci siamo...).
66 – Luca Casarini (con la sua straordinaria capacità di ascolto delle ragioni degli altri, naturalmente).
67 – I turisti italiani all'estero visti in qualche ristorante mentre cercano di ordinare in italiano a un cameriere che l'italiano non lo capisce e non lo parla: è così bello vedere che quando il malcapitato agita la testa sconsolato (con un sorriso di compatimento abilmente mascherato da sorriso mortificato) la soluzione adottata dai nostri connazionali per farsi capire è parlare in italiano come prima, solo mooolto più lentamente: “Un pià t to di pa tà te ffffrì tte, pre go. Capito?”.
68 – Il rumore del trapano dal dentista.
69 – I cannoli di Totò Cuffaro.
70 – Luca Laurenti (cazzo ridi, cretino, che non c'è niente da ridere?).
71 – Christian De Sica: uno che ha sbagliato cognome.
72 – Collezionare orologi.
73 – Sergio Cofferati, quello che doveva tornare a lavorare alla Pirelli perché così si fa la bella politica.
74 – Quei poveri coglioni che non hanno permesso a Gianfranco Fini di vedersi Berretti Verdi al cinema in santa pace.
75 – Così imparano.
76 - Il fatto che la carriera politica di una nullità di destra abbia avuto origine da un picchetto di nullità di sinistra.
77 – Asia. L'orrore che a Dario Argento è riuscito meglio.
78 – Il suo ex marito Morgan Castoldi (lo so: non avrei dovuto infierire... E' stato già abbastanza disgraziato, 'sto povero infelice, a conoscere una così).
79 - La ragazza del secolo scorso.
80 – Meno abbienti.
81 – Diversamente abili.
82 – Last Christmas (I gave you my heart).
83 – But... Do they know it's Cristmas?
84 – We are the world, we are the children...
85 – And, above all... The children (M. Jackson).
86 – I figli dei fiori (che non pensavano al domani. Beati loro...).
87 – Il pio Antonio Fazio da Alvito e la sua signora, Cristina Rosati (una coppia davvero ben assortita: niente da dire).
88 – Zichichi.
89 – Da Anna Laura Braghetti alla Faranda passando per la compagna Luna: ovvero... Donne. Donne con tanta voglia di raccontarsi...
90 – Va dove ti porta il cuore.
91 – Il governator Galan.
92 – Il governator Illy.
93 – Il governator Formigoni.
94 – Il governator Bassolino.
95 – Mamma, solo per te la mia canzone vola...
96 – Rick Wakeman e le sue tastiere.
97 – Ho visto anche degli degli zingari felici. E pure della gente con l'orchite (per pochi, questa...).
98 – La vestale Stefania Craxi.
99 – Francis Fukuyama and The End of History Posse on tour (special guest star: Sheik Osama Bin Laden).
100 – La società post-secolare (e tutti i post di questo mondo. Compresi, naturalmente, i post di 'sto cazzo di blog).






Inviate a tic una lista dei vostri orrori preferiti. Se mi spaventeranno il giusto, ne farò un post...