giovedì 31 gennaio 2008

Le lacrime di Levi Stubbs



Qualche giorno fa mi son comprato la ristampa in cd di un vecchio disco di Billy Bragg: quello che, secondo me, è il suo più grande. Si chiama Talking With The Taxman About Poetry (ovvero, “parlando di poesia con l'uomo delle tasse”: suona un po' esoterico, lo so, ma è solo Majakovskij, uno che si è sparato al cuore).
Me lo ricordavo bello, ma non così bello.
Conobbi la musica di mister Bragg nel 1984, con un disco (eh, si... Era proprio così che si diceva, allora: disco. Non usa più...) che si intitolava Brewing Up With Billy Bragg. Ma era già da un po' di tempo, almeno un anno, che avevo sentito parlare di questo inglese dal notevolissimo nasone che se ne andava in giro, di palco in palco (di piccolo palco in piccolo palco...), trascinandosi dietro una chitarra elettrica e un amplificatore e presentandosi al mondo in questa maniera folgorante: “Quando un artista folk sale sul palco con la sua chitarra, può pensare di essere James Taylor o Bob Dylan. Quando ci salgo io, penso di essere i Clash”.
E, credete a me: appena appoggiavi la puntina (eh, già... Proprio la puntina del giradischi) sui solchi del vinile e It says here letteralmente esplodeva, capivi che era vero. Ci si poteva fare airwaving, sulla prima canzone di Brewing up... Pareva veramente che fossero Joe, Mick, Paul & Topper, a suonare. Ed invece era Billy Bragg quello che stava incendiando, se non il mondo, il tuo mondo, in quel momento. Pennate secche sulle corde della chitarra, riff veloci e compatti e una voce che dovevi avere i testi sotto mano, altrimenti le parole non le capivi: non era proprio l'inglese che ci insegnavano a scuola quello che usciva dalle casse del mio stereo da poveretto.
E che belle cose aveva messo insieme, il laburista Billy Bragg. Elegie per la povera gente e fucilate al Sun e al Daily Mirror (quei giornalacci dove “la politica si mescola al bingo e alle tette/ in un gioco di soldi e cifre”), canzoni piene di rabbia, di furori nient'affatto astratti, di ironia e di amore per la vita. Come era possibile non rimanere incantati da uno che se ne usciva in questo modo: “Sono cresciuto con la soggezione/ Per la ragazza della porta accanto”? Si, era decisamente per me che cantava, il nasone: per la mia terribile timidezza e per tutte quelle volte che me ne stavo in disparte, per conto mio, a spiare le vite degli altri, ben più che per le mie incazzature adolescenziali, quasi sempre sorde e cieche come le incazzature a quell'età hanno la ventura di essere.
Avevo appena compiuto diciott'anni, nel 1986, quando uscì il “difficult third album” di Billy Bragg che apriva con un Johnny Marr schitarrante in una canzone magnifica dedicata alla brunetta Shirley (“I'm celebrating my love to you/ with a pint of beer and a new tattoo”), una tipa interessante, pareva (“Shirley, sei tu l'unico motivo che mi fa alzare dal letto prima di mezzogiorno”). Nelle chiacchierate sulla poesia con l'uomo delle tasse ci trovavi l'amore e la politica, “thoughts of lust” e protest songs urlate a pieni polmoni in faccia a Margaret Thatcher e Ronald Reagan. E a volte non capivi di che cosa si stesse parlando, veramente: Billy Bragg non ignorava, infatti, che si può finire per amare appassionatamente la politica anche solo perché non c'è proprio nient'altro, intorno a te, da poter amare (“Un uomo può passare un bel po' di tempo/ Chiedendosi cosa avesse in mente Jack Ruby/ E il tempo è tutto ciò che mi resta qui senza di te”). Non c'era nessuna autoindulgenza, nella sua poetica, e la retorica magari veniva sfiorata ma (quasi...) sempre evitata, nella consapevolezza che una canzone politica non dovrebbe mai assomigliare ad un comizio. Dirà qualche anno più tardi, in una delle sue canzoni più belle, Waiting For The Great Leap Forward: Mischiare pop e politica, mi chiedono che senso abbia/ io rispondo offrendo il mio imbarazzo e le mie solite scuse”. E sembra proprio di avercelo davanti, quel suo sorriso gentile.

In Talking With The Taxman About Poetry c'è Levi Stubbs' tears, una delle più belle canzoni che mai siano state scritte sul potere che ha la musica di riempirti la vita e di consolarti delle sue miserie. Perché, credete a tic, se la politica non può mai salvartela, la vita, ma proprio mai, la musica invece può...
Levi Stubbs' tears racconta di quanto erano belle le canzoni della Motown, l'etichetta discografica fondata da Berry Gordy (su suggerimento dell'immenso Smokey Robinson) nel 1960, con il nome di Tamla: il 'Motown' arrivò un po' più tardi, come omaggio a Detroit, la motor town, città delle automobili e dei motori.
La Motown fu una vera e propria fabbrica di hit da classifica, negli anni Sessanta: canzoni pop scritte da neri e cantate da neri, ma pensate per poter piacere anche ai bianchi (il che è come dire "scritte per tutti", naturalmente), caramelle che, nei primi anni di vita del marchio, giravano quasi esclusivamente a 45 giri, dolcificate con fiati, violini e voci di supporto di taglio gospel, il ritmo quasi sempre a quattro tempi. Sì, sfornava hit a getto continuo, la Motown: Smokey Robinson and the Miracles erano Motown, così come Martha Reeves and the Vandellas; i Temptations erano Motown, come Gladys Knight; le Supremes di Diana Ross erano Motown, come i Four Tops di Levi Stubbs.
Il periodo d'oro dell'etichetta fu senza dubbio quello che va dal 1963 al 1968: gli scrittori di canzoni della Motown, prima il trio Holland-Dozier-Holland e poi Norman Whitfield e Barrett Strong

(quelli, per capirci, di I heard it through the grapevine. Tra le altre cose...), fecero ballare l'America (e non solo l'America) negli anni delle lotte per i diritti civili e della guerra in Vietnam, della liberazione sessuale e del rock che diventava adulto con Bob Dylan, i Beatles, gli Stones e metteteci pure chi volete voi, che io rischio di mettercene troppi.

Quando le cose vanno a pezzi, canta Billy Bragg, i Four Tops rimangono al loro posto. Perché le loro canzoni sono sempre lì, e sono state scritte proprio per te. E' una storia commovente, quella che viene raccontata: una cronaca di poveri amanti sbagliati, di violenza domestica e di ferite dell'anima, quelle per cui non c'è cura.
Alla protagonista resta però la forza di metter su un nastro (un nastro...) dei Four Tops. E di piangere le lacrime di Levi Stubbs.
When the world falls apart, some things stay in place”: se la musica pop significa per voi quello che significa per me, non c'è bisogno di dire altro.
Un capolavoro, avrete inteso.

With the money from her accident
She bought herself a mobile home
So at least she could get some enjoyment
Out of being alone
No one could say that she was left up on the shelf
“It's you and me against the world, kid” she mumbled to herself

Chorus:
When the world falls apart some things stay in place
Levi Stubbs' tears run down his face

She ran away from home with her mother's best coat
She was married before she was even entitled to vote
And her husband was one of those blokes
The sort that only laughs at his own jokes
The sort that war takes away
And when there wasn't a war he left her anyway

Norman Whitfield and Barrett strong
Are here to make right everything that's wrong
Holland and Holland and Lamont Dozier too
Are here to make it all okay with you

One dark night he came home from the sea
And put a hole in her body where no hole should be
It hurt her more to see him walking out the door
And though they stitched her back together
They left her heart in pieces on the floor

When the world falls apart some things stay in place
She takes off the Four Tops tape and puts it back in it's case
When the world falls apart, some things stay in place
Levi Stubbs' tears...

martedì 29 gennaio 2008

Paradossi

Se n'è andato lo scorso anno, Luigi Meneghello.
Conoscete qualche sua opera? Spero per voi di si. Credo che il suo libro più popolare sia I piccoli maestri, uscito ne1964: magari vi sarà capitato di vedere il film che ne ha tratto Daniele Luchetti una decina di anni or sono.
Non è il suo libro migliore, però (ma è pur sempre, va detto, uno dei più bei testi che mai siano stati scritti sulla Resistenza. Solo di poco inferiore al miglior Fenoglio, quello di Una questione privata e de Il partigiano Johnny, per dire).
La palma spetta, secondo me, al suo esordio del 1963, Libera nos a Malo (in maiuscolo, Malo... Meneghello, infatti, proprio a Malo, in provincia di Vicenza, nacque nel 1922).
Io ho scoperto Luigi Meneghello solo ai tempi dell'università: dunque un po' tardi, purtroppo per me. Penso che sia uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento e nel contempo uno dei meno italiani... Ne fa fede, ritengo, quella che ho deciso di pubblicare, che è innanzitutto una (splendida) dichiarazione di poetica tratta da un libro bellissimo che si chiama La materia di Reading e altri reperti, pubblicato da Rizzoli nel 1997.
All'Università di Reading, nel Regno Unito, Meneghello insegnò per molti anni: fu proprio lui a fondarvi il Dipartimento di Studi Italiani, nel 1961.

Quindi, sempre a proposito di lingua italiana (ricordate, vero, quel testo di Leonardo Sciascia che ho pubblicato su talkischeap il 12 gennaio? E ricordate, forse, che allora avevo scritto qualcosa come "ho deciso di pubblicare alcuni testi che trattano della questione della lingua"?), ovvero di rispetto per la lingua italiana, e sempre a proposito di igiene linguistica, ladisengentelmen: Luigi Meneghello!



E' stato in Inghilterra, e attraverso la pratica dell'inglese, che ho imparato alcune cose essenziali intorno alla prosa. In primo luogo che lo scopo della prosa non è principalmente l'ornamento, ma è quello di comunicare dei significati. Questa per me era una novità. Faceva a pugni con l'intera temperie dell'educazione retorica a cui ero stato esposto.
Ma c'è dell'altro. C'era la nozione che l'oscurità non ha un pregio particolare, e posso assicurarvi che non era (e non è) facile convincere un italiano della mia generazione che è così. C'era poi l'idea che nelle cose che scriviamo la complessità non necessaria è sospetta, e non è affatto invece il prodotto naturale di una mente poderosa. Anzi, a un certo punto credo di essere arrivato molto vicino a credere che la complessità superficiale di un brano di prosa è probabilmente indizio di una mente debole, di un modo di pensare inefficace e confuso. E per concludere, c'era infine l'idea che, a parità di altre condizioni, la solennità è un difetto.
E così siamo arrivati a quanto pare al paradosso che è stato qui a Reading, ascoltando gli inglesi, che ho imparato a scrivere in prosa italiana.


Ah, si... Quasi dimenticavo: Luigi Meneghello militò nel Partito d'Azione.
Si capisce, vero?

lunedì 28 gennaio 2008

Morti viventi e bandiere rosse



L'altro giorno, in libreria, mi è capitato di sfogliare “Manuale per sopravvivere agli zombi” di Max Brooks (è il figlio di Mel, e dal padre ha ereditato senz'altro l'attitudine al cazzeggio selvaggio) e mi ci sono fatto sopra un sacco di risate. E' un classico manuale di sopravvivenza che si propone di insegnare al lettore che fosse interessato come sfuggire, appunto, al contagio dei morti viventi. Se mai decideste di leggervelo non ci troverete una narrazione: nel libro di Brooks non c'è una trama né ci sono dei personaggi. C'è solo didattica pura per sette capitoli che appaiono tanto più esilaranti quanto più l'autore pretende di fornire una trattazione serissima ed esaustiva del fenomeno zombi (come dire che per cazzeggiare al meglio bisogna far le cose con molto, molto metodo).
Si va dal capitolo “I non-morti, miti e realtà”, di raffinata acribia filologica a “Tecniche di combattimento”, “Difesa”, “Attacco”. Davvero impagabili, poi, sono i consigli su “Come vivere nel mondo dominato dagli zombie” e, dulcis in fundo, una storia documentatissima dei più celebri attacchi zombie sulla terra a partire dal 60.000 a. C. al 2002 d.C.
Se proprio bisogna fare un appunto al lavoro di Max Brooks (che acquisterò e poi leggerò con l'impegno che richiede e merita) è che vi è assente qualsiasi riferimento a Fausto Amodei e alla sua “Per i morti di Reggio Emilia”.
Forse qualcuno di voi conosce la canzone (io purtroppo si...): una roba deprimentissima, con una melodia in equilibrio assai precario tra il marziale e il funereo, retorica e quaresimale la sua parte oltre che vagamente (ma neanche poi tanto vagamente, a ben vedere) menagrama. Della serie: aita, aita! Arriva la sinistra, arriva la sinistra!!! Svelti, svelti: toccatevi i coglioni, che porta male!
C'è gente che ancora la canta senza sentirsi ridicola: posso testimoniare.
Cuccatevi perciò tutto il testo, chè qui, lo sapete, siamo seguaci del Divin Marchese.


Compagno cittadino, fratello partigiano,
teniamoci per mano in questi giorni tristi:
di nuovo a Reggio Emilia, di nuovo là in Sicilia
son morti dei compagni per mano dei fascisti.

Di nuovo, come un tempo,
sopra l'Italia intera
urla il vento e soffia la bufera.

A diciannove anni è morto Ovidio Franchi
per quelli che son stanchi o sono ancora incerti.
Lauro Farioli è morto per riparare al torto
di chi si è già scordato di Duccio Galimberti.

Son morti sui vent'anni, per il nostro domani:
son morti come vecchi partigiani.

Marino Serri è morto, è morto Afro Tondelli,
ma gli occhi dei fratelli si son tenuti asciutti.
Compagni, sia ben chiaro che questo sangue amaro
versato a Reggio Emilia, è sangue di noi tutti.

Sangue del nostro sangue, nervi dei nostri nervi,
come fu quello dei fratelli Cervi.

Il solo vero amico che abbiamo al fianco adesso
è sempre quello stesso che fu con noi in montagna,
ed il nemico attuale è sempre e ancora eguale
a quel che combattemmo sui nostri monti e in Spagna.

Uguale è la canzone che abbiamo da cantare:
Scarpe rotte eppur bisogna andare.

Compagno Ovidio Franchi, compagno Afro Tondelli,
e voi, Marino Serri, Reverberi e Farioli,
dovremo tutti quanti aver, d'ora in avanti,
voialtri al nostro fianco, per non sentirci soli.

Morti di Reggio Emilia, uscite dalla fossa,
fuori a cantar con noi Bandiera rossa,
fuori a cantar con noi Bandiera rossa!


E' stata scritta nel 1960, 'sta infamia, e devo dire che mi colpisce sempre la retorica senza alcuna vergogna di quel 'vecchi partigiani' ad appena quindici anni dal 1945. E, vi prego: la rima 'nervi'/'fratelli Cervi'? Roba da condanna ai lavori forzati in qualche salina, per il signor Fausto Amodei (che sarebbe questo tizio qui sotto: non sembra Carlo Verdone che interpreta Fausto Amodei in un biopic de noantri, diretto, che so, da una Wilma Labate, regista 'de sinistra' col vento in poppa perché piace taaanto a Bertinotti?). E che dire poi di quei poveri diavoli ammazzati a Reggio Emilia dalla polizia di Tambroni 'per riparare al torto' di chi si è scordato di Duccio Galimberti?

Ma son gli ultimi tre versi quelli che qui importano, con i morti di Reggio Emilia che escono dalla fossa e si mettono a cantar (con noi... Ahhhhhh!!!!) 'Bandiera rossa'.
Fantastici!
Pensate: in Italia, ben otto anni prima di George Romero e del suo straordinario, seminale, “La notte dei morti viventi”, Fausto Amodei si inventa una storia da brividi che mescola, in maniera davvero stupefacente, horror e politica. Il tutto, incredibile dictu, in soli tre versi. Un haiku di sfrenata, pazzesca creatività. Glielo avessero detto, a Max Brooks, ci avrebbe scritto sopra pagine, pagine e pagine: ne sono più che convinto. Voi sapete, non è vero, quanto gli americani amino l'horror all'italiana: ne fa fede, ed è solo uno dei tanti esempi possibili, il Quentin Tarantino innamorato perso dei film di Mario Bava e di Lucio Fulci.
Fausto Amodei è stato perciò, indiscutibilmente, un vero precursore. Chissà se già sapeva, il genio, che cos'è il solanum (cfr. Max Brooks: il solanum è il virus che provoca il fenomeno dei morti viventi).
Ma a questo punto, everything is possible.
Aita, aita!!!

mercoledì 23 gennaio 2008

Martiri





Sono abbastanza vecchio per ricordarmi molto bene della violentissima guerra civile che devastò Beirut e il Libano tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta.
Da bambino certe parole mi sembravano molto strane, molto misteriose: mi sembra ancora di sentirli, gli inviati di guerra del telegiornale nazionale (chi era? Marcello Alessandri?), parlare di fedayn, di cristiano-maroniti, di drusi e di Falange e, dietro di loro, sullo sfondo, la skyline della città bombardata, o le macerie nelle strade, una batteria di razzi katiuscia e dei miliziani armati in mezzo al fumo degli incendi.
E poi i nomi dei signori della guerra: i Jumblatt, i Gemayel... Figli di vere e proprie dinastie combattenti, in quella pazzesca macelleria mediorientale.


Mi sono avvicinato a Facce bianche di Elias Khuri come raramente mi accade, attirato da uno strillo in quarta di copertina firmato da Tahar Ben Jelloun: “Facce bianche è il libro sulla guerra in Libano, che continua all'infinito seminando dolore e desolazione”.
La storia si svolge nella Beirut del 1980 e racconta di un delitto, “un uomo sulla cinquantina inoltrata, tracce di percosse sul petto nudo, in faccia tagli e squarci”, rinvenuto cadavere in mezzo ad un monte di rifiuti. Era il signor Khalìl Ahmad Jàbir, un povero travet annichilito dall'uccisione del figlio in guerra, che aveva preso ad andarsene in giro a strappare dai muri della città i manifesti - ancora così comuni in Libano come in Palestina - che raffigurano quei combattenti 'morti da martiri', come il suo Ahmad, e a dipingerli poi di bianco, con la calce.
Non è un giallo, e quindi non si saprà mai il nome del colpevole o dei colpevoli. La morte di Khalìl Ahmad Jàbir è semplicemente la luce nera capace di illuminare, per qualche pagina, le vite di quanti lo hanno conosciuto bene e quelle di chi ha avuto a che fare con lui solo grazie al caso, a un accidente dell'esistenza: un omicidio efferato diventa, insomma, il punto di gravitazione per una serie di storie che nel loro sviluppo e nei loro intrecci riescono a restituirci, senza remissione alcuna e senza reticenze di sorta, la brutalità irrimediabile, la totale mancanza di senso e il disfacimento morale delle persone, ovvero quei fiori del male che ogni guerra fa sbocciare dal suo seno.



E allora l'assassinio di Jàbir, l'uomo ferito nell'anima che viveva per cancellare dai muri di Beirut i colori di quella retorica infame che ogni scannamento politico lascia inevitabilmente dietro di sé, come la bava di una lumaca, non può essere nemmeno definito come “un caso”: “Khalil Jàbir è morto e riposa in pace, cosa vuole di più? Magari l'hanno torturato, è evidente che l'hanno picchiato. Comunque sia, è morto. Sarebbe un caso, questo? Una città in cui muore una quantità spaventosa di gente, e la morte di Khalìl Ahmad Jàbir diventa un caso? Dicono che era il padre di un martire. Non lo so, amico, i martiri proliferano, tutti quanti sono diventati o martiri o familiari di martiri”.
Elias Khuri dirige il supplemento culturale del quotidiano “al-Nahar”, è visiting professor alla New York University ed è autore di quattordici romanzi. Facce bianche è uscito nel 1981. Einaudi l'ha stampato per l'Italia lo scorso anno.
Uno splendido romanzo corale, uno scrittore sensibile e raffinatissimo. Grazie di cuore a Tahar Ben Jelloun.

martedì 22 gennaio 2008

Parole celebri dalle mie parti (n.1)


"Se c'è un inferno, Roma ci sta sopra."

(Lutero)

sabato 19 gennaio 2008

Cattivi pensieri

A ognuno di noi capita di pensare cose che poi ci si vergogna di aver pensato.
Intendo cose che, una volta pensate, non è per niente bello dire a voce alta e che sarebbe bene, quindi, rimanessero sepolte per sempre in qualche recesso della mente.

Avrete certamente saputo che il governatore della Regione Sicilia, il signor Salvatore Cuffaro (che poi sarebbe questa silfide qui sopra), è stato condannato a cinque anni di reclusione, con l'interdizione dai pubblici uffici, per aver rivelato a un boss mafioso la presenza di microspie nella sua abitazione. E' stata però esclusa dai giudici l'aggravante di favoreggiamento a Cosa Nostra e Cuffaro perciò era tutto contento!
Il giorno prima della sentenza molte chiese della Sicilia (a Palermo, a San Vito Lo Capo, in provincia di Agrigento, a Siracusa, a Caltanissetta) hanno ospitato delle veglie di preghiera per il governatore. I suoi 'fedelissimi' hanno recitato salveregine e padrenostri: un modo, ha detto il segretario regionale dell'Udc (il partito di Cuffaro), Saverio Romano, “per stare vicini al presidente che sta vivendo il momento più difficile della sua vita politica”. Tra le altre cose, Salvatore Cuffaro ci tiene a far sapere che fra le centinaia di telefonate da lui ricevute non sono mancate “quelle di prelati, compresi vescovi, che mi hanno inserito nelle loro novene”. E come potevano mancare? Salvatore Cuffaro, si sa, è devotissimo alla Madonna.

Avrete poi saputo delle terribili vicende che hanno visto protagonisti il ministro Clemente Mastella da Ceppaloni (provincia di Benevento), la sua signora, il suo consuocero e altra gente del loro giro. E avrete magari sentito parlare, in qualche servizio televisivo, quello che è stato un po' il deus ex machina dell'inchiesta su Mastella, il procuratore della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere Mariano Maffei. Se non vi è capitato, fate un capatina su YouTube... Io, vi confesso, non ho ancora capito in che lingua si esprima il signor Maffei. E' veramente un caso interessantissimo. Che sia l'antico osco?

E vi sarà anche capitato di seguire alla tivvù qualche servizio sul disastro dei rifuti in Campania, con annesse interviste al popolo esasperato. Avrete senz'altro preso nota, allora, delle opinioni di certe erinni scarmigliate, urlanti e gesticolanti che, con gli occhi fuori dalle orbite, accusavano ora questo ora quello invocando ora questo ora quello.

Bene. Io ho deciso di condividere con voi un pensiero di quelli brutti e cattivi, di quelli che non si dovrebbe mai, ma proprio mai. Lo faccio perché vi voglio bene, a tutti voi che venite qui a leggermi. Lo faccio perché mi vergogno, mi sento veramente meschino, e ho tanto bisogno di essere consolato.
Davanti alla vicenda Cuffaro e alle veglie di preghiera in suo onore, davanti a Clemente Mastella, alla moglie di Clemente Mastella, alla famiglia di Clemente Mastella, alla roba di Clemente Mastella e pure al procuratore di Santa Maria Capua Vetere Mariano Maffei che rompe il cazzo a Clemente Mastella, e infine davanti alle urlanti erinni napoletane (c'è una foto fantastica su la Repubblica di oggi: una panzona del quartiere di Chiaia, seduta sulla monnezza, che leva le mani al cielo ad invocare, presumo, a Maronna 'o Carmine) io ho pensato, si, insomma... Ho pensato che... Che i terroni hanno rotto i coglioni. Ma proprio frantumati, me li hanno, ho pensato...
Ed è una cosa terribile da pensare e da dire: fortuna che ne sono consapevole. In Meridione, parlando in generale, c'è tanta brava gente, mica c'è solo Cuffaro (votatissimo e amatissimo), mica c'è solo Mastella. Ci sono anche tante, tantissime persone impegnate a lavorare concretamente, da decenni ormai, per il riscatto morale e civile della loro terra. Gente che si espone e rischia di persona. Contro tutti i Cuffaro che fanno soffiate ai mafiosi. Contro tutti i Mastella e le loro clientele.
Da decenni.
Da decenni.
Da decenni.
Da decenni.
Da decenni.
Dai e dai, prima o poi il riscatto arriverà. Ne sono più che convinto. Sul quando, visti i precedenti, proprio non me la sento di azzardare previsioni. Questo per dire che potrebbe anche essere una faccenda moooolto lunga.
Il mio cuore, comunque, è con loro.

venerdì 18 gennaio 2008

C. E. Gadda Vs il kuce (da Eros e Priapo)





Ho deciso di dedicare un pezzo a Carlo Emilio Gadda perché in questi giorni è uscito L'ingegnere in blu di Alberto Arbasino (Adelphi – Piccola Biblioteca, pagg. 186, euro 11) che proprio a Gadda è dedicato. Lo leggerò senz'altro.


E insomma, ho voluto pubblicare in talkischeap una pagina del Gran Lombardo (come lo chiamò Giulio Cattaneo) che amo molto, tratta da quell'Eros e Priapo che secondo me è uno dei più bei libri che siano stati scritti su quel cromosoma degli italiani che si chiama fascismo.
Gadda cominciò a lavorarvi negli anni 1945-46, mentre era contemporaneamente impegnato con la stesura del Pasticciaccio. Sospese il lavoro per riprenderlo verso la metà degli anni Cinquanta: la rivista Officina, già nel suo primo numero, uscito nel maggio del 1955, ospitò alcune pagine del testo sotto il titolo Il libro delle furie. Perché Eros e Priapo è esattamente questo: un libro delle furie cattivissimo e violentemente polemico, un pamphet di taglio psicanalitico in cui Gadda non ha freni. Nel mirino dello scrittore soprattutto lui, Mussolini Benito da Predappio, e poi i gerarchi e i fascisti tutti, “si trattava per lo più di gingilloni, di zuzzurulloni,di senzamestiere, dotati soltanto d'un prurito e d'un appetito che chiamavano virilità, che tentavano il cortocircuito della cariera attraverso la “politica”: intendendo essi per politica i loro diportamenti camorristici”. Oltre al criminale romagnolo e ai suoi complici, è con le donne italiane che se la prende Gadda,. Donne che tanto hanno amato e bramato quel duce del fascismo che in Eros e Priapo viene insultato per pagine e pagine senza pietà alcuna (Batrace, Pirgopolinice, il Fava, il Bombetta, eccetera eccetera eccetera). Le donne, ah le donne: quanto bramavano il kuce! “Le care donne colsero così il salubre respiro del marito o del confidente, con il pensiero al kuce. Nel gioco pareva loro che fosse il kuce a governarle. Il kuce, il kuce in pelle e in siringa di Zefirino. (...) Le più pazze, le più prese dalla imago, non bisognavano marito, né ganzo, né drudo. Checchè. Gli bastava imaginare il kuce nell'atto di salvar la Patria per sentirsi salvate e pregne anche loro in compagnia della Patria. Una di codeste pazze riuscì a fare un figlio: col ritratto del kuce. Ed ebbe il pupo, al nascere, le quadrate mascelle del Mascellone, tanto che lo ricovrarono al Cottolengo. Dove il mostriciattolo pisciò, cioccolattò, crebbe e proferì apoftegmi: in tutto simili a quelli del padre”.


In tutto ciò gioca un ruolo, indubbiamente, la ben nota misoginia di Gadda. Ma c'è anche altro: ovvero la profonda convinzione dello scrittore che “la causale del delitto” - il ventennio, la guerra, la vergognosa sconfitta - fosse una causale non esclusivamente ma prevalentemente erotica “nel suo complesso: segna il prevalere di un cupo e scempio Eros sui motivi di Logos”. Ed è parimenti cosa nota che Gadda detestava i grandi amatori: si veda l'antipatia per Ugo Foscolo (leggere, per rendersene conto Il guerriero, l'amazzone, lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo, 1967. Lo stesso anno della pubblicazione di Eros e Priapo) e per Napoleone Bonaparte.
Non una lettura facile, Eros e Priapo (la lingua adoperata dall'ingegnere è di tipo toscano-cinquecentesco, sappiatelo). Ma consigliatissima. Eccovene un assaggio.


Questo qui, Madonna bona!, non avea manco finito di imparucchiare quattro sue scolaresche certezze, che son qua mè son qua mè, a fo tutt mè a fo tutt mè. Venuto dalla più sciapita semplicità, parolaio da raduno communitosi del più misero bagaglio di frasi fatte, tolse ecco a discendere secondo fiume dietro al numero. A sbraitare, a minacciare i fochi ne' pagliai, a concitare ed esagitare le genti: e pervenne infine, dopo le sovvenzioni del capitale e dopo una carriera da spergiuro, a depositare in càtedra il suo deretano di Pirgopolinice smargiasso, addoppiato di pallore giacomo-giacomo, cioè sulla cadrèga di Presidente del Conziglio in bombetta e guanti giallo canarino.
Pervenne, pervenne.
Pervenne a far correre trafelati bidelli a un suo premere di bottone su tastiera, sogno massimo dell'ex agitatore massimalista. Pervenne alle ghette color tortora, che portava con la disinvoltura d'un orango, ai pantaloni a righe, al tight, al tubino già detto, ai guanti bianchi del commendatore e dell'agente di cambio uricemico: dell'odiato ma lividamente invidiato borghese.


Con que' du' grappoloni di banane delle du' mani, che gli dependevano a' fianchi, rattenute da du' braccini corti corti: le quali non ebbono mai conosciuto lavoro e gli stavano attaccate a' bracci come le fussono morte e di pezza, e senza aver che fare davanti 'l fotografo: i ditoni dieci d'un sudanese inguantato. Pervenne. Alla feluca, pervenne. Di tamburo maggiore della banda. Pervenne agli stivali del cavallerizzo, agli speroni del galoppatore. Pervenne, pervenne! Pervenne al pennacchio dell'emiro, del condottiere di quadrate legioni in precipitosa ritirata. (Non per colpa loro, poveri morti; poveri vivi!) Sulle trippe, al cinturone, il coltello: il simbolo e, più, lo strumento osceno della rissa civile: datochè a guerra non serve: il vecchio cortello italiano de' chiassi tenebrosi e odorosi, e degli insidiosi malcantoni, la meno militare e la più abbietta delle armi universe. Il coltello del principe Maramaldo: argentato, dorato: perché di sul trippone figurasse, e rifulgesse: come s'indorano radianti ostensorii. Sui morti, sui mummificati e risecchi dalle orbite nere contro il cielo, (di due rattratte mani scarafaggi al deserto), sui morti e dentro il fetore della morte lui ci aveva già lesto il caval bianco, il pennacchio, la spada dell'Islam, fattagli da' maomettani di via Durini a Malano.


Per la pompa e la priapata alessandrina. E la differenza la sapete bene qual è, la differenza che passa tra Lissandro Magno e codesto brav'uomo: che l'Alessandro Magno l'è arrivato (sic) ad Alessandria col cocchio: e lui c'è arrivato col cacchio. Si tenne a dugèn chilometri di linea. Riscappò via co' sua cochi e marmellate dell'ulcera, Scipione Affricano del due di coppe.

martedì 15 gennaio 2008

Brutta gente

Dai oggi, dai domani, tira oggi, tira domani, un'ingerenzina di qua, un po' di chiagni e fotti di là, alla fine qualcuno che si incazza lo trovi, caro signor Ratzinger. Cerca di essere sportivo, dai: visto che tu e i tuoi amici, assolutamente indisturbati, ve le state cercando da tanto, tanto tempo, non dovreste aver poi troppo da lamentarvi.
Principi non negoziabili?
"Cos'ho io da imparare", come diceva Michele II Paleologo?
Dai e dai, cerca che ti cerca... Trovi.


In tutto il bailamme di questi giorni, comunque, sono riusciti a distinguersi in maniera particolare due ex comunisti, Giuseppe Caldarola e Livia Turco.
Il primo se l'è presa, dalle pagine del suo blog (www.vaicolmambo.ilcannocchiale.it), con "questi ayatollah all'amatriciana", rei di aver bollato Ratzinger come il "nemico della scienza e della laicità" ma che "non spendono una parola, una, una sola, contro l'Iran negatrice della Shoah o contro il terrorismo assassino". Secondo Caldarola, "la minaccia contro il Papa è un evento drammatico, culturalmente e civilmente". Culturalmente "perchè rivela che c'è una parte di cultura laica che non ha argomenti e demonizza, non discute come la vera cultura laica ma crea mostri". Civilmente perchè "non si sa come spiegare alla gente comune, non a baroni rossi che hanno scritti libri fondati sui tesi infondate, perchè il papa dei cattolici è ospite sgradito nell'Università della capitale della Repubblica".
Capito? Avete inteso, si? Io, per me, credo di poter imparare qualcosa persino dal signor Caldarola: per esempio non sapevo che 'Iran' fosse un sostantivo femminile e adesso lo so, dato che l'Iran è 'negatrice'. Mi chiedo però e chiedo come si fa a discutere di qualcosa con gente che quando parla - e parla tanto - lo fa sempre in nome della Verità con la maiuscola. Eh? Ma non pretendo risposte. Il papa non è un nemico della scienza? Boh, magari il Caldarola ha pure ragione. Io so solo che il papa è profondamente convinto (lo ha scritto sulla sua ultima enciclica, quindi dobbiamo crederci) che, quando la verità scientifica entra in contrasto con la Verità rivelata, la prima deve fermarsi.

E la (bruttissima) Livia Turco da Morozzo (CN)?
Lunedì 14 corrente mese ha annunciato che avrebbe partecipato alla "veglia laica" (l'hanno chiamata così) di solidarietà per Ratzinger che si dovrebbe svolgere questa sera nella sede romana de Il Foglio di Giuliano Ferrara. Livia Turco ha aderito "simbolicamente" perché secondo lei la visita papale, ora abortita, alla Sapienza è "un gesto laico" e anche perché bisogna "difendere il sacrosanto diritto di parola".
Riassumo brevemente: Livia Turco (una donna, vi assicuro: anche se è così brutta che sembra un uomo brutto) aderisce ad un'iniziativa promossa da Giuliano Ferrara, direttore de Il Foglio: lo stesso Giuliano Ferrara che, in mezzo a torme di ciellini osannanti, ha recentemente definito l'aborto "un omicidio. Di più: (...) non esiste omicidio più perfetto dell'aborto perchè è l'assassinio del futuro di un uomo".
Bene: io son qui che mi chiedo cosa mai potrà pensare di queste alate parole una donna che ha dovuto abortire, Livia Turco (una donna bruttissima, ma pur sempre una donna), invece, trova opportuno aderire alle iniziative, al solito creative e fantasiose, promosse da Giuliano Ferrara.

Come dice Caldarola? C'è una "vera cultura laica" che sa discutere.
Poveri noi che non sappiamo.

lunedì 14 gennaio 2008

Tutti a squola


Mario Pirani, su Repubblica, continua a prendersela con il livello disastroso dell'istruzione pubblica in Italia.
Oggi un articolo della sua rubrica LINEA DI CONFINE inizia così: “L'addove con l'apostrofo è solo uno degli infiniti strafalcioni che costellavano la prova scritta dei quattromila laureati in giurisprudenza, presentatisi all'ultimo concorso per entrare in magistratura. Gli errori di ortografia, di grammatica elementare, di sintassi, l'assoluta incapacità espositiva si sono rivelati tanto diffusi ed irrecuperabili che alla fine il collegio docente ha rinunciato ad assegnare 58 dei 380 posti che aveva a disposizione”.
Secondo Pirani, la scuola italiana ha ormai da tempo rinunciato alla qualità dell'insegnamento in nome di un permissivismo demenziale con cui si è fatto credere ai ragazzi che “potevano largamente infischiarsene del rispetto della lingua nazionale (ma anche delle altre discipline, dalla matematica alla storia)”. Una delle bestie nere del giornalista è l'inesauribile inventiva di certi pedagogisti nostrani (professionisti a contratto di chiarissima fama, servitori assai stimati di due padroni, i ministri dell'istruzione Luigi Berlinguer e Letizia Moratti, Franza o Spagna purché se magna!). Cito da un articolo apparso su Repubblica sabato 20 ottobre 2007, La scuola nel paese dei balocchi: “chi alla fine dell'anno si mostrava assolutamente carente gli si dava un voto virtuale, un sei rosso, come veniva chiamato, perché era scritto sui quadri finali con questo colore. Poi lo si nascose in nome della privacy e la carenza è stata, finora, resa nota per lettera ai genitori, con l'informazione che, per ogni materia con insufficienza grave, il loro figliolo era gravato da un “debito” che avrebbe dovuto saldare negli anni seguenti. Ma in tutto quest'arco di tempo solo uno studente su 4 si è dimostrato capace di saldare i debiti entro la fine del successivo anno scolastico. La maggioranza ne esce fino al termine dei corsi con una serie di promozioni che si portano in seno una sequela di bocciature, cancellate artificiosamente”. Perché questo è accaduto, negli ultimi anni, nella scuola italiana.
Conosco un paio di professori universitari. Ogni tanto mi capita di chiedere com'è il materiale che arriva loro dalle scuole superiori. Mi rispondono, generalmente, con due sole parole: “Da piangere”. Detto da gente, badate, che ormai è da quasi un decennio che piange già per conto suo comunque, visto come è stata ridotta l'Università italiana da una politica del cazzo, di sinistra e di destra, che ha pensato bene di chiamare “riforme” una immane sequela di astrusità burocratiche e di imposizioni didattiche da barzelletta.
Risultato? I ragazzi italiani risultano i peggiori d'Europa nei test internazionali. Tra di loro c'è qualche eccellenza, e come no: in genere parliamo di figli di famiglie dove la cultura è di casa e la televisione, se c'è, rimane accesa molto poco. Famiglie in buone e buonissime condizioni economiche, ovviamente. Ed è fantastico, davvero, toccare con mano che certi egualitarismi vissuti come un valore a prescindere e certi permissivismi anti-autoritari hanno avuto come risultato una scuola dove, è ancora Pirani, “la differenza di classe sociale genera una ingiustizia assai più grave che nel passato”.
Cito una simpatica giornalista, la Concita De Gregorio: “Non so dire con precisione cosa sia successo nella scuola italiana dal tempo dei nostri genitori (Dante e Ariosto a memoria, capacità di tradurre all'impronta quasi intatta oggi, a sessant'anni dalla maturità) al nostro (vaghe reminiscenze di antiche fatiche) a quello dei nostri figli”.
Io, nel mio piccolo, credo che sia successo qualcosa nella società, prima che nella scuola. La scuola è uno specchio della società: di solito la segue immancabilmente, come l'intendenza di De Gaulle.
E forse stiamo parlando di un fenomeno che non è solo italiano. Nell'articolo di oggi, Pirani segnala che anche in altri paesi c'è chi ha cominciato a fare i conti con “una prolungata deriva permissiva in casa e a scuola”. Pare che Le Monde, nei giorni scorsi, abbia ospitato un bel dibattito tra psicologi infantili, psichiatri ed educatori che si sono confrontati “con i figli di una generazione che ha confuso autorità con autoritarismo e si è ritratta di fronte ad ogni forma di punizione”.
Nella famiglia, e poi nella scuola (quindi prima nella società, e solo dopo nella scuola) per anni annorum si è rubricato in non cale ogni principio di autorità e ci si è dedicati a demolire allegramente - con annesso corredo di fumisterie psico-pedagogiche a fornire copertura culturale - ogni concetto di limite. Alla fine, la figura del docente non poteva che perdere ogni autorità di ruolo e gli studenti non potevano che vivere la scuola come un luogo insignificante, “da attraversare di tappa in tappa, anche senza eccessiva fatica e sforzo, dove ogni tipo di comportamento è tollerato ed impunito, dove non esiste sanzione, dove i più scansafatiche e i bulli si affermano e prevalgono nel gruppo”.
D'accordissimo con Mario Pirani, per quello che vale la mia opinione.
Perché ho voluto scrivere di scuola? Ma perché nel 2008 molto si parlerà del quarantennale del 1968.
E figuratevi qui da noi - altro che Francia! - dove il 1968 è durato un decennio (perché ci son voluti nove anni a smaltire quella che è stata una sbronza politica davvero omerica) come saremo afflitti dai "com'eravamo"...
E come eravamo belli, noi. Noi che una certa lettera ad una certa professoressa la leggemmo, vedete, in tempo reale. Noi che l'autoritarismo l'abbiamo combattuto eccome, ed era dura, altro che voi. Noi che c'eravamo tanto armati. Noi che non è un caso, cari e care, se veniamo celebrati come la meglio gioventù.
Intanto, in Italia, a quarant'anni da quelle gloriose vicende, siamo passati per legge dal diritto allo studio garantito dalla Costituzione repubblicana al “diritto al successo formativo”: pensate che progresso! Con tutto che il ministro Fioroni ha cercato un po' di cambiar rotta, se non proprio di invertirla, di ritornare (che bello da dire) all'ordine, mi pare che ci sia poco da stare allegri. E' da anni, ormai, che il “riformismo”, di sinistra e di destra, vede nella scuola italiana un terreno privilegiato di sperimentazione e azione. Rimane ancora qualcosa da demolire?

domenica 13 gennaio 2008

Odo augelli far festa (after the storm)

Dopo un giorno di buriana, il Vaticano interviene per rettificare e precisare, per troncare e per sopire: il signor papa non intendeva certo dire che la città di Roma è governata di merda, ma che siete andati a pensare?

In realtà, secondo Ratzinger, quelli che governano la capitale d'Italia “hanno cura di rendere la città più bella ed accogliente”, ma certo, e il papa non aveva mica intenzione di sottovalutare “l'azione sociale che i responsabili della città di Roma e della Regione stanno compiendo con apprezzabile impegno”. Il giorno prima, invece, Ratzinger aveva detto, testualmente: “Un evento tragico come l'omicidio di Giovanna Reggiani ha posto bruscamente i cittadini di fronte al problema non solo della sicurezza, ma anche del gravissimo degrado di alcune aree di Roma”. Tra il “gravissimo degrado” e l'azione sociale compiuta con “apprezzabile impegno” pare sia intercorsa una fittissima attività diplomatica tra gli ambasciatori di W. e certi esponenti della santa sede.

Com'è, come non è, sembra che il povero, laicissimo, W. abbia tirato un bel sospirone di sollievo davanti alla mezza marcia indietro innestata dalla segreteria di stato vaticana. A voler dar credito al vaticanista Marco Politi pare che il segretario di stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone, consideri W. “un sincero fautore del dialogo con il Vaticano anche su temi scottanti come le coppie di fatto e la 194” e sia perciò rimasto piuttosto contrariato dalla prima uscita del papa (quella su Roma degradata perché mal governata), ispirata, secondo il porporato, dal cattivo consigliere Camillo Ruini: secondo Bertone, la tempesta scatenata dal richiamo papale al sindaco di Roma rischiava di “bruciare” il sincero fautore del dialogo e non era il caso. Ma si, perché tagliarsi dei ponti? Potrebbe non essere una buona idea, noi non sappiamo cosa ci riserva il futuro... Perciò, nella serata di venerdì 11 corrente mese, Tarcisio Bertone è intervenuto direttamente: “Con il Comune proseguono dialogo e collaborazione”.
Ma non erano certo il comune e il sindaco di Roma, l'obiettivo di (Ruini e) Ratzinger, suvvia, cardinale... Era al segretario del PD che la santa (?) sede ha voluto prendere le misure. Tutti l'hanno capito subito, persino W. che adesso si dice “molto contento delle parole del Papa (lui lo pronuncia maiuscolo, n.d.r.), parole molto belle, di apprezzamento e di incoraggiamento”. Non delle prime parole di sua santità, of course. Di quelle della rettifica, eh...
E' talmente felice, il nostro caro W., che è tornato a chiamare il papa Santo Padre (anche questo pronunciato maiuscolo). Sentite un po' che pasqua: ”Le parole del Santo Padre ci incoraggiano a proseguire. Oggi si possono chiudere le polemiche causate da odiose e strumentali reazioni politiche”. L'avete percepito, il sollievo del leader, si?

A botta calda il meraviglioso (e democristianissimo!) Pierluigi Castagnetti aveva commentato in questo modo il bel calcio nei denti rifilato giovedì scorso dal “Santo Padre” al segretario del PD: "Nei confronti del partito democratico c'è una diffidenza che deve esser vinta. I vescovi, la Chiesa, vogliono ancora capire come i cattolici sono accettati nel nuovo soggetto, se li renderà irrilevanti o meno".
Cerchiamo, insomma, di rassicurarla, santa romana chiesa, noi del PD. E vedrete che, alla fine, una benedizione, in qualche modo, arriverà. Abbiate (ehm...) fede! Dai, su... Facciamo i bravi.
L'occasione per far capire alla santa (?) sede che il PD è un partito affidabile si presenterà già giovedì prossimo, in occasione della visita di Joseph Ratzinger alla Sapienza di Roma. C'è aria di contestazione. Un gruppo di docenti, per la precisione 63 professori della facoltà di Fisica guidati da Carlo Bernardini, ha firmato un appello perché venga revocato a Ratzinger l'invito a partecipare alla cerimonia di inaugurazione dell'Anno Accademico.
Eccovi il testo.

Condividiamo appieno la lettera di critica che il collega Marcello Cini ha inviato al Rettore dell'Università La Sapienza di Roma a proposito della sconcertante iniziativa che prevede l'intervento di Benedetto XVI all'Inaugurazione dell'Anno Accademico alla Sapienza (lettera che sostiene l'inopportunità dell'intervento e alla quale non è stata data finora risposta).
A sostegno della critica di Marcello Cini aggiungiamo solo un particolare. Il 15 marzo 1990, ancora cardinale, in un discorso alla città di Parma, Joseph Ratzinger ha ripreso un'affermazione di Feyerabend: “All'epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto”. Sono parole che, in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all'avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci offendono e ci umiliano.
In nome della laicità della scienza e della cultura e nel rispetto di questo nostro Ateneo aperto a docenti e studenti di ogni credo e di ogni ideologia, auspichiamo che l'incongruo evento possa ancora essere annullato
”.

Idee chiare, no? Sentite cosa aggiunge Carlo Cosmelli, uno dei professori che hanno firmato la richiesta al rettore della Sapienza, Guarini: ”Le accuse anti-scienza che il Papa ha lanciato da cardinale le ha ribadite anche nella sua ultima enciclica. Lui è convinto che, quando la verità scientifica entra in contrasto con la verità rivelata, la prima deve fermarsi. Una cosa del genere in una comunità scientifica non può essere accettata”. Eh, già: non può. Sennò come caspita potrebbe essere presa sul serio?
Ma col ciufolo che l'evento sarà annullato. Ratzinger andrà alla Sapienza e qualcuno, giustamente, contesterà. Magari rumorosamente.
E così il caro, laicissimo, W., sincero fautore del dialogo, potrà intervenire stigmatizzando le contestazioni. Già me lo vedo e me lo sento. Il suo intervento comincerà con queste parole: “La città di Roma ha una grande tradizione di tolleranza...".

sabato 12 gennaio 2008

La questione della lingua (Leonardo Sciascia)


Secondo De Maistre, il gran reazionario, “ogni degradazione individuale o nazionale è immediatamente annunciata da una degradazione rigorosamente proporzionale del linguaggio”.
Penso avesse ragione da vendere. Fate la prova: aprite bene le orecchie e provate ad ascoltare i miei e vostri connazionali. Che lingua parlano? Eh? Con quali parole si esprimono?
Ascoltateli con attenzione: non credo sia una cosa brutta, non vi sto proponendo di adottare il punto di vista del visitatore di un giardino zoologico davanti alle bestie in gabbia, per intenderci. Ma quello, in genere affettuoso, dell'entomologo di fronte ai propri insetti. Ascoltarli parlare (concentrandosi, badate, sul lessico usato, non sulle cose dette) non è in fondo un modo per prendersi cura di loro, almeno un po'? Perciò fatelo senza particolari scrupoli. Quando potete. E poi mi direte. Secondo me si capisce molto bene perché il nostro povero Paese stia andando a ramengo.
Ho deciso di pubblicare alcuni testi che trattano della questione della lingua. O meglio, di come la lingua italiana, negli ultimi decenni, sia stata sistematicamente (programmaticamente, direi) stuprata. Sono firmati da gente che sapeva benissimo che “ogni degradazione individuale e nazionale è annunciata da una degradazione rigorosamente proporzionale del linguaggio”.
Cominciamo con un testo di Leonardo Sciascia pubblicato nella rubrica Quaderno, sul quotidiano L'ora di Palermo, il 30 gennaio 1965. Occhio a quanto Sciascia scrive di Aldo Moro (del “mito” Moro...). Ho scelto di evidenziare in neretto alcune parole.




LA QUESTIONE DELLA LINGUA
Una conferenza tenuta da Pasolini in varie città d'Italia, ha scatenato sulla questione della lingua penne più o meno illustri, più o meno competenti, più o meno cariche di malumori e veleni. Ognuno ha voluto dire la sua, e spesso facendo dire a Pasolini quello che non ha detto. I più, infatti, lo hanno accusato di aver voltato gabbana, di essersi convertito alla lingua tecnologica, di comunicazione, del nord: e di avere, per conseguenza ripudiato la lingua di espressione del sud, là dove, invece, Pasolini si era limitato a constatare lo spostamento linguistico dall'asse Roma-Firenze all'asse Torino-Milano, cioè l'insorgere di una lingua che io chiamerei “manageriale”, nella quale viene sì a risolversi il lungo processo di eliminazione dei particolarismi linguistici, e dunque l'avvento di una lingua finalmente unitaria, ma con conseguenze che sarebbero poi una specie di perdita dell'anima.
Constatazione, questa, che Pasolini fa non senza dolore ed orrore: così come un medico, per quanto addolorato, non può fare a meno di registrare il decesso di un paziente; che sarebbe, in questo caso, l'asse linguistico Roma-Firenze.
Personalmente non ho mai avuto problemi linguistici se non nel senso della ricerca della chiarezza. E sono convinto che scrittori come Pirandello, come Saba, come Moravia, abbiano portato abbastanza avanti il processo di unificazione tra lingua letteraria e lingua parlata. Anzi: sono convinto che Moravia l'abbia addirittura risolto. Se poi questa soluzione non è valida per tutti i livelli della società italiana, ciò si deve al fatto che la società italiana ha, a tutt'oggi, dei livelli irraggiungibili. Considero dunque come artificioso e mistificatorio, come alibi di individuali impotenze (che raggruppandosi formano però una forza, una potenza teorizzatrice), quella specie di grido di dolore per la lingua che non c'è che da qualche parte si leva. “Se ci fosse davvero una lingua italiana moderna, lubrificata, quali grandi cose scriveremmo!”, molti hanno l'aria di dire. Mentre, al contrario, sono le grandi cose da dire che fanno la lingua.
Ma Pasolini non è da confondere col coro che lamenta la lingua che non c'è. Egli ha, di solito, esatta percezione del farsi delle cose: e nel suo discorso ha colto un fenomeno che viene ineluttabilmente svolgendosi nella società italiana, cioè l'avvento di un linguaggio fabbricato negli ambienti “manageriali”, un linguaggio di comunicazione. Solo che questo linguaggio è soltanto un gergo furbesco, come giustamente è stato osservato: e non è poi vero che sia totalmente depurato da ombre e sfumature espressive. E' il gergo, insomma, dei caroselli televisivi, dei presentatori tipo Bongiorno, degli uomini politici: e contiene aspirazione alla persuasione, alla stupidità, alla felicità. Non una lingua, dunque, ma un gergo: e il constatarne l'esistenza è come porre un corollario a quella teoria della “managerial revolution” che sarebbe il caso di tornare a verificare. Insomma, la rivoluzione dei dirigenti tecnici porta la conseguenza di una rivoluzione linguistica che in Italia, in ultima analisi, rischia di provocare una specie di petrarchismo tecnologico.


La lingua di Moro
Non ho ancora letto il testo della conferenza di Pasolini: ho letto una sua risposta alle critiche che gli erano state mosse, e molte di queste critiche. Per sentito dire, dunque, so che Pasolini ha indicato come carta della nuova lingua il discorso che l'onorevole Moro pronunciò alla inaugurazione dell'autostrada del Sole.
L'onorevole Moro è un uomo politico meridionale: il che è abbastanza noto, ma vale la pena di sottolinearlo, se Pasolini si riferisce a un suo testo come alla carta di Capua della lingua che nasce sull'asse Milano-Torino. E dell'uomo politico meridionale ha tutte le qualità, e principale quella del non dire. Fino a ieri, il classico modello dell'oratoria politica meridionale poteva considerarsi il discorso che il principe di Fracalanza rivolge ai suoi elettori nei Vicerè di Federico De Roberto: discorso di magistrale non dire relativamente ai problemi di cui essi elettori erano individualmente e collettivamente gravati, e spaziante con vaga disinvoltura nei cieli della politica estera e coloniale, della potenza patria, del prestigio internazionale. Genialmente, bisogna riconoscerlo, l'onorevole Moro ha inventato un più rigoroso, quasi scientifico non dire. E' sua, se non ricordo male, la trovata delle convergenze parallele: che non significano assolutamente niente, né nella logica astratta né in quella delle cose concrete. E chi l'ha sentito e visto in televisione non può non condividere l'impressione dell'ineffabile non senso che l'onorevole Moro comunica. “Vegna Medusa: sì 'l farem di smalto!”
Se dunque il “sao ko kelle terre” della nuova lingua è il discorso dell'onorevole Moro, è il caso di dire che stiamo freschi davvero.

giovedì 10 gennaio 2008

Francesco Sanna contro Maciste

Il gruppo di esponenti del PD che sta attendendo alla stesura dello statuto del nuovo (GRANDE!) partito pare si sia arenato su certe pericolose secche regolamentari. I ben informati dicono che si stia consumando uno scontro all'arma bianca (vabbé, dai: fatemela passare. Ormai, avrete notato, ogni questione politica, anche la più infima, viene presentata dai professionisti dell'informazione con lo stesso linguaggio usato nei bollettini di guerra: per cui leggiamo di agguati, avanzate fulminanti, assalti, assedi. Tutto molto sobrio, come l'italian style richiede. Perciò, anche se tic non è certo un professionista dell'informazione, fatemela passare, dai...), uno scontro all'arma bianca, si diceva, su quale dovrebbe essere il modello del nuovo (GRANDE!) partito, o su un nuovo modello di partito, non ho capito bene. Scrive Goffredo De Marchis sulla solita Repubblica fondata da Eugenio Scalfari (vi giuro che fra un po' comincerò a citare gli articoli e gli editoriali de La Stampa: almeno per qualche tempo): “Molti nodi non sono ancora sciolti e ieri sera se n'è aggiunto un altro. Francesco Sanna, il rappresentante di Enrico Letta nel gruppo Statuto, ha proposto una regola-choc: il segretario che perde le elezioni è obbligato a dimettersi. Sanna ha tutti contro, anche gli ex-Ds e gli ex-Ppi che in questa fase non hanno fatto sconti a Veltroni e ai veltroniani sull'idea di partito. Ma non molla e sabato ripresenterà il suo emendamento. Chi perde a casa. E non come scelta personale o politica, ma come regola scritta”.

Che dire? Innanzitutto che è davvero tristo il Paese in cui viene considerato scioccante mettere per iscritto in uno statuto di partito che “il segretario che perde le elezioni è obbligato a dimettersi”.
Io lo trovo sacrosanto. Mi piace un sacco l'idea che una cosa come il dovere di rassegnare le dimissioni da parte di un leader politico che ha fallito (mancando un appuntamento politico fondamentale) venga scritta da qualche parte e non lasciata al buon cuore, alla generosità e alla sensibilità del trombato.
Lo dico perché non mi pare siamo tanto abituati a vedere gente che si dimette da un incarico politico, in Italia, e sarebbe bellissimo, invece, abituarsi. Secondo me. Lo dico perché condivido, ma cominciano a starmi davvero sul culo, le frequentissime geremiadi sullo scarso ricambio di personale nelle classi dirigenti del nostro povero Paese: non c'è cane, nella parte politica alla quale mi pregio (e capirai...) di appartenere, che non se ne stia riempiendo la bocca in questa fase di costruzione di un nuovo (GRANDE!) partito. Per cui basta seghe, cari signori, e avanti con le proposte. Il signor Francesco Sanna, di suo, almeno se ne è assunto l'onere per cui chapeau! Le pratica delle dimissioni, in effetti, a me sembra una buona leva per mettere in moto il ricambio politico di cui tanto si ciancia. Ne conoscete altre che si potrebbero utilizzare? Se si, rendetemene edotto: saprò senz'altro esservi grato.
Cercherò di seguire questa vicenda. Soprattutto per capire quali sarebbero le motivazioni di chi è rimasto scioccato (e sticazzi!) dalla proposta del signor Sanna. Secondo me ci sarà da ridere. Lo dico così, a naso.

P.S.
Non ho trovato, in rete, il logo del nuovo (GRANDE!) partito. Cercate di accontentarvi di questo qui sopra. Ehm...

mercoledì 9 gennaio 2008

Fagioli

Il comune di Saluggia si trova a 40 chilometri da Vercelli: 4160 abitanti, o giù di lì. Posa, come sta scritto in www.canavese.it/paesi/saluggiapresso un ripido argine scavato dalla Dora Baltea. Gli storici fanno risalire le origini del nome di Saluggia ai salluvii, primi abitanti della zona, o ai salici che crescevano in abbondanza o, ancora, all'enorme solco scavato dalla Dora”. E vabbé, fin qui niente di inedito: come per tanti altri posti in Italia non si capisce bene da dove caspita gli derivi il nome di battesimo. Funziona così anche dalle mie parti, e come no...

Dovete sapere che Saluggia è conosciuta come "il paese dei fagioli": quelli prodotti nella zona, infatti, sono di una varietà particolare, conosciuta e particolarmente apprezzata dagli intenditori (poco da ridere: pare siano in parecchi), in Italia e all'estero.
Il sindaco di Saluggia si chiama Marco Pasteris e sentite un po' come si presenta sul sito internet del suo comune: “Mi chiamo Marco Pasteris e con i miei 39 anni sono il Sindaco più giovane della storia di Saluggia. Ovviamente ringrazio chi ha riposto in me fiducia e speranze. Ma al tempo stesso sono orgoglioso di essere anche il Sindaco di chi, nel segreto dell'urna elettorale, aveva espresso altre preferenze. La nostra è una terra di grandi tradizioni. E' una terra di gente che opera quotidianamente sul territorio. E' una terra dai solidi valori costituzionali. Valori che ispireranno le mie scelte così come quelle della mia Giunta. Sempre improntate alla difesa della libertà e della democrazia. Sarò un Sindaco a tutto campo. Il Sindaco della gente. Mi batterò sempre e comunque per il bene di Saluggia. Partendo proprio dalla questione delle scorie nucleari. Perché dopo quarant'anni di forzata ospitalità, per altro a titolo gratuito, credo sia doveroso e responsabile voltare pagina. Wolfgang Goethe diceva, "Qualunque cosa tu possa fare, o sognare di poter fare, incominciala". Seguirò alla lettera i suoi insegnamenti. Per il bene di Saluggia, per il bene della mia gente”. Il riferimento alle scorie nucleari, ve lo dico subito così poi non ci pensiamo più, si riferisce all'annosa vicenda dell'impianto Eurex, gestito da quella Sogin che dovrebbe occuparsi al meglio dei nostri impianti nucleari. In passato qualche genio della stirpe pensò bene che si potesse far sorgere un comprensorio nucleare in un'area immediatamente a ridosso della Dora Baltea, corso d'acqua ad altissimo rischio esondazioni (le ultime si sono verificate nel 1997 e nel 2000). E perciò il comprensorio di Saluggia racchiude ben tre attività incentrate sul nucleare: il citato deposito Eurex (prima gestito dall'Enea) destinato al ri-processamento di elementi di combustibile, poi l'Avogadro, che ospitava un piccolo reattore di ricerca (successivamente utilizzato dall'Enel come deposito temporaneo per il combustibile irraggiato) e infine l'installazione radiochimica del gruppo Sorin-Biomedica. Nel 2006 alcuni articoli de Il Manifesto denunciarono, per la prima volta, perdite di acqua radioattiva dalla piscina dell'impianto Eurex, contenente ben 52 barre di uranio. L'Arpa-Piemonte in seguito non solo confermò che l'intercapedine della piscina presentava delle perdite, ma rilevò che la contaminazione aveva interessato le falde acquifere.
E mi fermo qua: una delle tante (troppe) tristi storie italiane di ignoranza e criminale improvvisazione. Dicevo tanto per non lasciarvi davanti alla biografia del sindaco Pasteris con qualche dubbio...
Concentratevi ora sulle alate parole del primo cittadino di Saluggia: vuole essere “il sindaco della gente”, l'originalone. Eh, eh, eh... I sindaci che conosco io sono di centrosinistra - non come il Pasteris che è invece di destra (Alleanza Nazionale, per la precisione) - ma non sapete quanti, tra loro, se ne sono usciti (e continuano ad uscirsene, purtroppo) con la fantastica frase ad effetto (solo che io non riesco proprio a figurarmi il minus habens su cui tale uscita possa produrre un qualche effetto) “voglio essere il sindaco della gente”. Un altro contributo alla critica di Pasteris l'ho avuto da http://www.andreapancotti.com/: “A Saluggia ha vinto il “centro” destra. Ed alla notizia il nuovo sindaco Marco Pasteris ha allietato tutti con la canzone “We are the Champions” dei Queen, seguito da un corteo di macchine strombazzanti e festanti, e da fuochi d’artificio (tutto vero!!!)”.
Perché vi parlo di questo povero carneade? Ma perché ho recentemente sentito cantare le sue gesta. Precisamente giovedì 27 dicembre, su la Repubblica.


Ora, dovete sapere che a Saluggia, nel 1846, nacque Giovanni Faldella. Non molti sanno, me ne rendo conto, chi sia stato Faldella.
Io invece lo so, perché mi sono laureato in storia della letteratura italiana moderna e contemporanea. Ricordo in particolare, e son passati tanti anni, un corso del professor Elvio Guagnini sulla prosa odeporica (scritture di viaggio, dai...) in Italia. Alcuni dei testi proposti alla lettura erano proprio di Faldella. Li conservo ancora, nella mia libreria: A Vienna. Gita con il lapis e A Parigi. Viaggio di Geromino e Comp., usciti per l'editore Costa&Nolan nel 1983 nella collana Testi della cultura italiana, diretta da Edoardo Sanguineti. A Parigi era corredato da una divertente prefazione di Sebastiano Vassalli. Ne cito qualche passo: “Faldella è l'Omero di questa parte di Piemonte che confina a occidente con Gozzano, a sud con Camerana e Tarchetti, a nord con Cagna, a oriente con Dossi. Da qui, nelle giornate di vento, si vedono le guglie e i pinnacoli del Gadda talmente vicini che crederesti di toccarli con mano. E che respiro, che fiato c'è nelle pagine del Nostro!”. Ancora? Ancora: “Personalmente ritengo che se avesse avuto un vizio qualsiasi Faldella poteva diventare, come niente, il nostro maggior scrittore moderno. Ne aveva – direbbe l'enologo – il nerbo e la stoffa. Bastava solo che si ubriacasse; che fosse un poco omosessuale, come Gadda; che avesse amori furtivi; che fiutasse. Che fosse prodigo, o avaro. Che insidiasse i bambini per strada. Che guardasse dalle serrature dei cessi le signore mentre facevano la pipì”, e via cazzeggiando.

Faldella viene sempre presentato come scrittore “scapigliato”, ma fu in effetti uomo di poche trasgressioni. Era un tipo istituzionale: per dire, nel 1881 divenne anche deputato, e senatore del regno nel 1896.

Fu molto apprezzato, nel Novecento, da Gianfranco Contini (che è questo signore qui sopra, ritratto da De Pisis) , da Cesare Segre e da Luigi Russo. Per usare le parole di Enrico Filippini, la prospettiva in cui lo scrittore si collocava “era quella della rottura dell''equilibrio linguistico', su una linea, per dirla grossolanamente, Dante-Folengo-Porta-Dossi-Gadda”. Faldella andrebbe insomma visto, scrisse proprio Contini, come un rappresentante, non minore, “di quella eterna 'funzione Gadda'” che va dal macaronico Folengo al (grandissimo) Carlo Dossi, scrittore di cui Carlo Emilio Gadda viene generalmente considerato lo straordinario discendente in linea diretta.


Una prosa lussureggiante, quella di Faldella. Sentite un po' come la descriveva lui stesso: “Vocaboli del trecento, del cinquecento, della parlata toscana e piemontesismi; sulle rive del patetico piantato uno sghignazzo da buffone: tormentato il dizionario come un cadavere, con la disperazione di dargli vita mediante il canto, il pianoforte, l'elettricità, il reobarbaro...”. Qualcosa di più che una semplice curiosità per specialisti, avrete inteso.
Ebbene, sapete che è accaduto di recente? L'amministrazione comunale di Saluggia ha tolto il patrocinio alla rappresentazione teatrale di un testo giovanile di Faldella, Un bacan spiritual, con la motivazione che, leggo su la Repubblica, “la commedia offenderebbe la memoria di un sacerdote saluggese dell'Ottocento”. E c'è pure dell'altro: il comune di Saluggia (di cui, tra l'altro, il babbo di Giovanni Faldella, Francesco, fu sindaco) ha negato l'autorizzazione, ad alcuni studiosi dell'Università del Piemonte Orientale, a poter consultare il fondo che contiene la corrispondenza dello scrittore, in particolare il carteggio con Achille Giovanni Cagna. Un fondo che è sì depositato a Saluggia, ma risulta di proprietà della Regione Piemonte.
Insomma, il sindaco Pasteris fa la guerra a Faldella, reo di aver sfotticchiato un religioso. E dire che il nostro non la pensava troppo male, dei preti: “Si dirà che la razza dei preti è una razza artifiziata, come quella dei buoi inglesi da macello allombati e ingrassati e ridotti a piccolissime ossa. - Ma è una razza necessaria che bisogna conservare per l'arte e la morale. Quel salsicciotto nero con il tovagliolo infisso nel collaretto, con la testa rossa ammattonata dalla castità (...) riesce una cosa cara, utile, artistica; a cui si possono fare delle confessioni, che non si oserebbero aprire ad altri, e che può dare dei consigli...”. Ma quanto sopra Pasteris non deve conoscerlo, e si capisce: egli è un esegeta di Goethe, mica di Faldella.
Che dire? Anni fa (non troppi) cercavo di tenere, in qualche modo, la contabilità dei luoghi in cui, in Italia (povera, povera Italia), si intitolavano vie e piazze a certe carogne che avevano ben meritato durante il Ventennio fascista. Adesso cerco di tenermi informato sulle tante vandee che spuntano come amanite nel nostro povero, cattolicissimo (anche se molto poco cristiano) Paese: che so, sindaci che affidano il paesello da loro amministrato alla protezione della Madonna del Petrolio, politici che organizzano veglie di preghiera in spregio all'Islam e al relativismo etico, cose così... Ed ecco spuntare Pasteris sulla mia strada. Impagabile: uno che toglie il patrocinio ad uno spettacolo teatrale perché altrimenti Gesù piange.
Conclusioni? Sarò un po' grossier, come direbbero i francesi.

Saluggia è il paese del fagiolo? Bene, va detto che ha un sindaco degno delle ben note proprietà del simpatico legume: Marco Pasteris è, in tutta evidenza, uno che fa politica e amministra scorreggiando come un bufalo cafro all'abbeverata. E ve lo dimostro: eccovi una sua foto, su un manifesto per la festa di San Grato, il patrono di Saluggia. Osservatelo attentamente, sto bel campione della cristianità: è stato immortalato, chiaramente, mentre se la ride sotto i baffi subito dopo aver mollato una di quelle belle loffe calde, a soffione. We are the champions, my friends...